di Caterina
La cronica ricerca di
economie produttive costringe i teatri d'opera italiani ad inventarsi delle
soluzioni intelligenti per presentare al pubblico nuovi allestimenti. Si
ricorre così a noleggi, magari non ancora visti nel luogo specifico, o a coproduzioni, al fine di comprimere
costi ormai proibitivi.
È interessante quindi comparare la stessa messa
in scena così come appare o come viene
montata in due o più teatri differenti, anche a diversi anni di distanza e,
spesso, con la sola presenza di un assistente invece del regista che l'ha
creata in origine.
È il caso del Don Carlo in
cinque atti proveniente dal Festival di Salisburgo e recentemente presentato
alla Scala. Il palcoscenico del Festspielhaus della cittadina austriaca è infatti conformato diversamente da quello
milanese, il che ha imposto il taglio di intere sezioni della già minimalista
scenografia in funzione della diversa superficie. A questo si aggiunge
l'inevitabile impiego di imponenti masse
artistiche tipico di un Grand Opéra come il Don Carlo, per la cui gestione è necessario un lavoro specifico. Se infatti
lo spazio scenico nel quale coro e comparse si muovono non è sfruttato con
coerenza si rischia l'effetto ora di punta, con movimenti o peggio immobilismo
regolati meccanicamente, quasi come ad un semaforo a più tempi.
Ancora più complesso è il passaggio di una produzione da
un luogo atipico, quale può essere un anfiteatro o un'arena, ad un edificio
teatrale vero e proprio. È questo il caso di Norma, coprodotto da Macerata
Opera Festival insieme alla Fondazione Teatro Massimo di Palermo. Lo spettacolo
è stato presentato originariamente all'arena Sferisterio del capoluogo
Marchigiano la scorsa estate ed è stato ripreso poche settimane fa in Sicilia.
Si tratta di un allestimento di grande impatto visivo, basato su un'intricata
rete di funi, stracci, fettucce che, nella vastità del palcoscenico maceratese,
molto allungato e delimitato da un incombente muro di mattoni, aveva una forza
espressiva dirompente per via di un progetto luci accurato e di un governo
abbastanza agevole sia della componente scenografica che dei personaggi
presenti in scena. Il finale con il confronto tra Norma e l'infido amante
Pollione, risultava ancor più cruciale non solo per la forza drammatica della
scrittura belliniana, ma anche e soprattutto per le lunghe cime fatte di metri
e metri di stracci che serravano i polsi del
proconsole romano mentre tentava invano di divincolarsi.
A Palermo i due registi Ugo
Giacomazzi e Luigi Di Gangi hanno curato personalmente la ripresa e si è notato il lavoro di adattamento quasi
sartoriale allo spazio scenico a disposizione. Sia pure negli immutati
confezione (il packaging dell'allestimento) e concept, sin dall'inizio è stata
chiara la volontà di calare l'idea originaria nel diverso ambiente. Qui Norma
agiva in una società multietnica, la sua, con un richiamo alla realtà di oggi del capoluogo siciliano.
Se a Macerata la sinfonia ci presentava il quadro felice nella mente della
protagonista con l'ipotetica famiglia nella quale entrambi i genitori giocavano
a rimpiattino con i due figli, a Palermo tale immagine era scomparsa. I figli
della colpa, tra l'altro di diversa etnia , giocavano solo con la madre
intrecciando e scambiandosi una cordicella che simbolicamente simulava la rete
di legami affettivi.
Al gran movimento
coordinato delle masse sul palcoscenico dello Sferisterio si opponeva un uso
millimetrico delo spazio nella sala del
Basile. Qui le pedane a rialzare la superficie scenica, reti, graticce, ed intrecci di funi rendevano
ancor più l'idea di una società ancestrale della colpa, mentre lo spazio aperto
Marchigiano sottolineava soprattutto il rapporto stretto fra Norma e Medea con
un richiamo agli agoni della grecità.
L'impressione finale è
quella di due spettacoli simili ma al contempo profondamente differenti, pur
nell'identica confezione. Persino i costumi con gli elementi ripresi dalle scenografie si
apprezzavano maggiormente per la cura del dettaglio, o era forse la minore distanza tra pubblico e
palcoscenico che a Palermo li rendeva più interessanti.
Musicalmente un confronto
sarebbe sterile o quanto meno improponibile per via delle differenti condizioni
acustiche. Inutile fare paragoni fra cast o insistere sulla concertazione dei
due direttori. Ciò che resta negli occhi, nella mente e nelle orecchie dello
spettatore è la forza drammatica e narrativa di Bellini, in un contesto
coerente e rispettoso che, saldato alla musica, supporta e scruta la dimensione
privata e pubblica di Norma, Pollione ed Adalgisa.
https://amnerisvagante.wordpress.com/2017/03/06/una-norma-per-due-teatri/
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