miércoles, 4 de julio de 2018

RICCARDO MUTI PORTA LA PACE A KIEV

di Carla Moreni

Sembra intangibile, quell’isola disegnata dal palcoscenico nella grande piazza di Kiev, tra le cupole dorate delle Basiliche di Santa Sofia e di San Michele: nulla di quanto avvenga dall’alto la scalfisce. Né il diluvio di pioggia, con vento e temperature precipitate a dieci gradi, né i cecchini con i mitra puntati, che sbucano dalle finestre della torre. L’importante qui è solo la musica: Verdi, Copland, Riccardo Muti, John Malkovich, i Cherubini e il meraviglioso e sempre spericolato progetto “Le Vie dell’Amicizia” di Ravenna Festival. Con l’utopia ogni volta realizzata di intrecciare musicisti lontani, dove suonino allo stesso leggio e cantino fianco a fianco orchestrali e coristi fino al giorno prima sconosciuti tra loro. Con un dialogo perfetto, simbiotico. Che lancia messaggi di pace.

Kiev non sembra la capitale di uno Stato in guerra. Te ne accorgi solo al momento del concerto, quando per ordinare le diecimila persone in piazza (disciplinatissime peraltro, e soprattutto tenacemente pazienti) vengono schierati cordoni di soldati, a distribuire la folla in tre gironi: c’è chi sta seduto, al centro, e ci sono due larghi cerchi in piedi, ben distanziati. I cento morti di piazza Maidan, del febbraio 2014, sono un ricordo presente. La paura degli assembramenti tangibile. Oltre ai controlli ormai abituali di borse e cappotti (sì, si muore di freddo) si chiede anche di camminare in fila indiana, andatura impossibile agli italiani.



Ma ti accorgi davvero della guerra, e tocchi con mano il senso profondo di questa ventiduesima edizione delle “Vie dell’Amicizia”, da Sarajevo 1997 a Kiev 2018, quando alla fine della prova generale, aperta agli studenti (in sala alzano la mano sei giovani che studiano direzione d’orchestra) nella rasserenante bomboniera del Teatro Ševčenko, parli con due coristi del Collegio delle Arti di Mariupol: lei, Juliana, sedici anni, lui, Evgeny, trenta. Sono qui con altri compagni e la loro maestra. Si sono fatti gli ottocento chilometri che separano la capitale dell’Ucraina dalle zone a est, nel Donetsk. Lì tutti i giorni si spara, si combatte. «No, della nostra scuola non è morto nessuno, ma abbiamo amici al fronte», spiega Evgeny con un ritmo di parole a mitraglia. Parla ucraino, naturalmente. Mentre Juliana, che è poco più di una bambina, si pizzica nervosamente il braccio. «Capiamo cosa vuol dire cantare il Va’ pensiero di Verdi: ce lo hanno spiegato. Ci sentiamo vicini alla storia del popolo italiano».

Provano compassione, traduce l’interprete. Li prendiamo alla lettera. Perché quando cantano - merito loro, merito del loro solerte preparatore, il quarantunenne Bogdan Plish, merito di Riccardo Muti, carismatico nel sentire e intrecciare corde diverse - la risonanza delle linee musicali rinasce nuova, autentica, come se la sentissimo qui per la prima volta. I ragazzi hanno studiato, si sono misurati con quest’opera emblematica del nostro Risorgimento. Ma non solo tecnicamente. Perché mai come ora le parole del vecchio melodramma suonano presenti. Vere. Sono cinque, i Cori uniti di diverse istituzioni musicali dell’Ucraina: oltre ai ragazzi di Mariupol, ci sono i coristi dell’Opera, il Coro da camera “Credo”, l’Ensemble Lyatoshynsky e quelli dell’Accademia Čiaikovskij, di Kiev, che alla fine donerà a Muti tocco e mantello porpora di una laurea ad honorem. Titolo che si unisce alle medaglie del presidente Porošenko, consegnate al direttore, a John Malkovich, eccezionale voce recitante del “Lincoln Portait” di Copland, e a Cristina Muti, da sempre anima del Festival ravennate e del sogno delle Vie. Che già guardano a Atene, a Bruxelles o a Minsk.
È difficile non parteggiare per il Paese ospitante, quando si è in clima di guerra. E vibra il discorso di Porošenko, prima della musica, dove si chiede a Mosca la liberazione del prigionieri politici ucraini (e Kiev è tappezzata di manifesti per il regista Sentsov, per il giornalista Sushchenko) ma poi tocca a Verdi, a Copland, portarlo nella profondità della storia, nelle domande dell’arte, che non ha bandiere. Cento anni esatti - 1842, 1942 - separano “Nabucco” dal “Lincoln Portait”: la “patria sì bella e perduta” diventa un nastro di speranza, nel gesto della mano sinistra di Muti; freedom, democracy, responsability, parole incisive nella recitazione di Malkovich, senza un velo di retorica. Quello che insegna la musica è la sua necessità di essere realizzata, per essere viva. Anche nelle condizioni più estreme. Si deve fare. Non importa il diluvio. Le sedie bagnate si asciugano. Il famoso attore aiuta col phon ad asciugare i fogli con gli Inni, di Ucraina e Italia, già messi sui leggii e che si sono inzuppati.

L’esecuzione finale che ne esce, alla fine, è bella proprio perché ha vinto una battaglia. Simbolica. Esemplare. Certo meno difficile della pace, tuttavia… E suonano così bene i Cherubini, non solo Verdi e Copland, che proprio nella notte di Kiev sorge spontanea una proposta: perché non mandare in onda il loro “Fratelli d’Italia”, ogni mezzanotte, su RadioUno? I Berliner non si offenderebbero, certo. Mentre ne guadagnerebbero musicalità del fraseggio e la coerenza della storia.

Verdi, “Stabat Mater” e “Te Deum”, Copland, “Lincoln Portrait”, Verdi, pagine da “Nabucco”; John Malkovich, voce recitante; Orchestra Cherubini e Coro e Orchestra dell’Opera dell’Ucraina; direttore Riccardo Muti; Kiev, piazza Santa Sofia, Ravenna, Pala De André


No hay comentarios:

Publicar un comentario