lunes, 28 de septiembre de 2020

CON LUCA GUADAGNINO CON LA SERIE TV SI FA POESIA

Abbiamo visto «We are who we are», racconto di formazione dal 9 ottobre su Sky Atlantic e NowTv


Jordan Kristine Seamón & Jack Dylan Grazer (Foto di Yannis Drakoulidis)

GIANMARIA TAMMARO

La vita dei giovani è una vita complicata, perché è una vita in divenire, senza certezze, senza appigli, confusa e nebbiosa come una mattina d’inverno, spoglia e allo stesso tempo rigogliosa, fatta di promesse, false speranze, di sogni infranti e di sogni irrealizzabili. Ma la vita dei giovani è anche semplice, perché ai giovani si perdona tutto, gli errori fanno parte delle controindicazioni dell’età, e una parola fuori posto è una parola inconsistente come fumo nel vento. La vita degli adulti, invece, è terribile, paurosa, vigliacca: è una prigione, non una strada da percorrere; è sempre uguale, sempre identica, più amara che dolce, ed è bugiarda, infame, piena di lacrime e di insensatezze, già fatta, già decisa, già scritta.

We are who we are, scritta a sei mani da Francesca Manieri, Paolo Giordano e da Luca Guadagnino, diretta e co-creata dallo stesso Guadagnino, racconta una storia a metà: tra la vita dei giovani e quella degli adulti, tra quello che possiamo diventare e che siamo già diventati; tra quello che vogliamo essere, e quello che, come dice il titolo, siamo già. Perché siamo quello che siamo, la nostra natura è dentro di noi, e così il mondo, quello che accade attorno a noi, persino la Storia, con la maiuscola, non ci cambiano, ma ci rivelano: i nostri gusti, le nostre passioni, le nostre stranezze; e poi il sesso, l’amore, l’amicizia.

I due protagonisti sono due ragazzi: Fraser, interpretato da Jack Dylan Grazer, e Caitlin, interpretata da Jordan Kristine Seamón. Entrambi sono figli di soldati, abitano in una base militare americana vicino a Chioggia, e stanno per vivere l’estate della loro vita: quella in cui capiranno finalmente chi sono, che non appartengono ad altri se non a sé stessi, e che non c’è nessun manuale da consultare per amare: c’è solo da fare, da provarci, da fallire, da sperimentare.

Siamo alla fine del 2016, e l’Italia è un’Italia meravigliosa, immersa nel nord, tra i canali e i ponti di pietra, circondata dall’acqua e calda, caldissima, come in un deserto. È un’Italia antica e allo stesso tempo moderna, sempre divisa, sempre festosa, un po’ grigia, spesso approssimativa, ma libera: libera come sono liberi i bambini. Gli americani che vivono nella base militare, dove la mamma di Fraser (Chloë Sevigny) è la comandante e il papà di Caitiln (Richard Poythress) addestra le nuove reclute, sono rumorosi, sporchi, eccessivi; urlano, strepitano, sono sempre pronti a menare le mani, adorano avere ragione, odiano essere contestati e perdere, sono l’essenza del nuovo mondo e faticano, faticano profondamente, a trovare il loro equilibrio in un paese – in un continente – che ha già visto, fatto e detto tutto, che sa raccontare la violenza con le parole, e che nella poesia (quanta poesia c’è, in We are who we are) ha una spiegazione per ogni cosa.

Anche loro sono come i bambini. Ma sono più insicuri, più bigotti, convinti di avere la risposta pronta ma sempre prossimi al fallimento. Il mondo di fuori, e quindi l’Italia, Chioggia, le strade asfaltate, gli autobus traballanti, si riversa in continuazione nel mondo di dentro, e quindi la base, l’America, la politica; e si insinua come un serpente, scivola via tra le regole, tra il giuramento alla bandiera, tra cose che non hanno nessun senso, ma che ci ostiniamo a seguire comunque (onore, eroismo, «America first»).

In un quadro così complicato e contemporaneamente così semplice, Fraser e Caitlin si conoscono, si riconoscono, stringono amicizia e trovano l’uno nell’altra uno specchio in cui guardarsi e rivedersi, un compagno con cui giocare e perdere, con cui imparare o semplicemente oziare, e da cui farsi riprendere («Non hai mai baciato qualcuno», dice Caitlin a Fraser, quando lui le parla del suo amore per la poesia). Nell’estate italiana, che è diventata una cifra, un punto fisso, nella cinematografia di Guadagnino, amano, lasciano, capiscono; si scontrano con i loro genitori e con i loro amici, e imparano qualcosa di più su sé stessi.

E nella loro sessualità, nel rumore risucchiato, viscido e morbido dei loro baci, muovono i passi più importanti: fanno quello che fanno tutti quando non conoscono qualcosa; si mettono in discussione, in prima linea, si interrogano. Intanto, attorno a loro, Trump vince le elezioni, gli americani si convincono di aver ritrovato un certo orgoglio e amor proprio, l’Italia rimane la stessa, con le sue feste e le sue ricorrenze, e i loro amici partono, vanno in guerra, muoiono, il massacro diventa un gioco, e a giocarlo sono gli adulti, mentre i più giovani subiscono.

We are who we are conserva la delicatezza e la dolcezza dell’adolescenza, e riesce a mescolarle con l’agrodolce delle cose che sappiamo già sull’amore (le delusioni, la violenza, il sentirsi violati e traditi); e in otto episodi, mette in scena l’amore materno, l’odio dei figli, il tradimento, due donne che si incontrano e che si liberano insieme, e che poi, sempre insieme, tornano a confinarsi nelle loro vite; e soprattutto due ragazzi che scivolano tra le dita delle etichette, tra le costrizioni castranti delle scelte, e che semplicemente vivono.

Nella musica, We are who we are trova un alleato fondamentale e riconosce l’importanza del ritmo e del tono, e nelle immagini – i singoli frame, le fotografie che a un certo punto riempiono lo schermo – riscopre l’essenzialità del racconto. Perché basta un’espressione per immortalare uno stato d’animo, e basta un sorriso per rappresentare la felicità, o un urlo soffocato, come quello di Fraser, per dipingere la disperazione. Non è una vita disinibita, quella che conducono i personaggi di We are who we are: è una vita vera, credibile, una vita piena di scorciatoie, di fossi, di buche, piena di quelle cose che ci piace dimenticare – errori, problemi, incomprensioni – e che però resistono, sono ancora lì anche dopo che abbiamo chiuso e riaperto gli occhi.

Guadagnino vuole mettere in scena un racconto di formazione e lo fa splendidamente. Nelle pulsioni più estreme e veraci diamo il meglio di noi, lasciamo uscire fuori la nostra vera anima. E un’amicizia può essere silenziosa come piena di parole, può essere fatta di tanti dubbi quanto di sicurezze. E siamo quello che siamo sempre: è nei nostri geni, nella nostra natura, nel modo in cui parliamo, nelle canzoni che ascoltiamo, nei vestiti che indossiamo; è una forza primordiale che non si può contenere, che non si può frenare, e che prima o poi finisce per venire fuori, per eruttare come un vulcano. Guardi Fraser e Caitlin e guardi buona parte dei ragazzi di oggi: non per quello che condividono, per quello che ciascuno di loro sogna e vuole diventare; ma per quello che non hanno, che non riescono a trovare, e che li mette tutti insieme in questo enorme purgatorio che sembra non finire mai.

We are who we are, su Sky Atlantic e NowTv dal 9 ottobre, prodotta da The Apartment e Wildside con Small Forward, è un romanzo sulla crescita fatto d’immagini, è una playlist infinita dove David Bowie incontra Calcutta, ed è un affresco di colori, di occhi, di capelli corti e capelli rasati, di tinte, di unghie smaltate, in cui non ci sono regole su chi essere, e in cui l’unica cosa che conta, e conta davvero, è ascoltarsi, ascoltare l’altro, sentirsi a vicenda. Guadagnino non rifugge la carnalità dei rapporti, non nasconde i corpi, non ha paura di mettere in scena l’amore per quello che è (e perché, poi, dovrebbe?). L’adolescenza è un limbo, un girone infernale, ma è anche il paradiso in Terra, tutte le possibilità che abbiamo e che non avremo mai più raccolte in un unico posto, nello stesso momento, per una quantità di tempo limitatissima.

Quando si è giovani si ha paura, ma si ha pure la forza per trovare il coraggio; da adulti è tutto passato, è tutto andato, non ci si riconosce più, e i rimpianti hanno superato le gioie. We are who we are è un invito a vivere l’attimo, a vivere il momento, è un documentario – perché lo è nella sua verità, nell’onestà del suo tono – dell’adolescenza. Che è l’età più bella e, allo stesso tempo, più brutta. Perché è doppia, molteplice, inafferrabile. E però c’è, e finiamo per apprezzarla solo quando, paradossalmente, è finita. “We are who we are” non è perfetta, e in alcuni momenti lo stile prende il sopravvento sul contenuto e la forma si fa arte, pura arte, e in scena vanno danze tribali e scatenate.

In questa serie, le parole, spesso, sono solo parole, e tutto quello che c’è da dire viene lasciato alla musica. Perché essere giovani significa anche questo: cercare un ritmo nelle cose, non un ordine; e seguirle per istinto, come in un ballo, e non perché in esse abbiamo riconosciuto la bontà di uno scopo superiore. Siamo quello che siamo: ancora, di nuovo, per l’ennesima volta. Uomini e donne, soprattutto persone. Viviamo sopravvivendo, e sopravviviamo cercando negli altri un’ancora di salvezza. Ma la verità è che stiamo tutti annegando, e che non possiamo fare altro che rifugiarci nell’istante del presente, in un bacio rubato tra i colonnati di Bologna o in quell’occhiata che ci ha lanciato la barista dall’altra parte della sala e che ci è sembrata piena come sono piene le vite vissute.

https://www.lastampa.it/spettacoli/tv/2020/09/20/news/con-luca-guadagnino-la-serie-tv-si-fa-poesia-1.39326102

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