Día Internacional de la Francofonía (Journée internationale de la francophonie)
Fiesta
Descripción
La Organización Internacional de la Francofonía proclamó el 20 de marzo Día Internacional de la Francofonía.
MUSÉE JACQUEMART-ANDRÉ: EXPOSITION GIOVANNI BELLINI
Influences croisées
Au printemps 2023, le Musée Jacquemart-André présente la première
exposition en France consacrée à l’œuvre du grand maître Giovanni Bellini (v.
1435-1516), l’un des fondateurs de l’école vénitienne, ayant ouvert la voie à
l’art de la couleur et du ton qui a fait la gloire de la Sérénissime.
À travers une cinquantaine d’œuvres issues de collections
publiques et privées européennes, dont certaines présentées pour la première
fois, cette exposition met en lumière l’art de Giovanni Bellini et les
influences artistiques qui imprègneront son langage pictural.
Par une mise en
regard de ses œuvres et celles de ses maîtres à penser, cette exposition – la
première jamais consacrée en Europe à cette thématique – montre comment son
langage artistique n’a eu de cesse de se renouveler tout en développant une
part indéniable d’originalité.
Réparties selon un ordre chrono-thématique, les
tableaux de Bellini constituent le fil rouge de l’exposition et sont
accompagnés des « modèles » qui les ont inspirés.
Issu d’une famille d’artistes, Giovanni Bellini fréquente avec son
frère Gentile l’atelier de leur père, Jacopo Bellini, peintre de formation
gothique bientôt rompu aux nouveautés renaissantes venues de Florence.
Le jeune
artiste s’imprègne à la fois de l’art de son père et de son frère, mais aussi
de son beau-frère Andrea Mantegna, que sa sœur Nicolosia épouse en 1453. Le
classicisme, les formes sculpturales et la maîtrise de la perspective de
Mantegna exercent une profonde influence sur l’artiste. Sa peinture devient plus
monumentale, notamment grâce à l’étude des œuvres du sculpteur florentin
Donatello, visibles à Padoue.
Le style de Bellini change de cap avec l’arrivée à Venise en 1475
d’Antonello de Messine qui unit le goût flamand du détail avec les
constructions spatiales des artistes d’Italie centrale. Giovanni emprunte à
l’art flamand la technique de la peinture à l’huile apportant une nouvelle
inflexion esthétique à son oeuvre. Autre source d’inspiration, l’art byzantin,
et plus particulièrement les Madones byzantines, marque ses représentations de
Vierges à l’Enfant. Il développe également des thématiques représentées par des
peintres plus jeunes, comme celle des paysages topographiques inspirés de Cima
da Conegliano. Son ultime période est caractérisée par une touche plus vibrante
d’une grande modernité. Ce seront les innovations de ses meilleurs élèves – et
notamment Giorgione et Titien – qui pousseront le vieux Bellini à réinventer
son style.
L’exposition au Musée Jacquemart-André souligne la quête incessante
de Giovanni vers de nouvelles aspirations et permet de comprendre en quoi son
langage pictural est fait de jeux de miroirs et d’influences, qu’il synthétise
magistralement à travers la maîtrise de la couleur et de la lumière.
L’exposition bénéficie de prêts exceptionnels de la Gemäldegalerie
de Berlin et notamment du Museo Thyssen-Bornemisza de Madrid, de la Galleria
Borghese de Rome, du Museo Correr, des Gallerie dell’Accademia et de la Scuola
Grande di San Rocco de Venise, du Musé e Bagatti Valsecchi de Milan, du Petit
Palais de Paris, et du musée du Louvre ainsi que de nombreux prêts de
collections privées d’œuvres dont certaines n’ont encore jamais été montrées au
public.
“Mio padre pensava che diventare musicista,
per un meridionale, fosse come andare sulla luna”
Intervista di Flaminia Bussotti e Giovanni di Lorenzo pubblicata sul Die
Zeit n. 39/2022
Libera traduzione dal tedesco
Riccardo Muti ha appena diretto un concerto di una potenza estenuante al
Grosses Festspielhaus di Salisburgo. Al suo ingresso in una suite dell’Hotel
Sacher per questa intervista, però, emana la stessa energia che aveva ore prima
sul podio. Come ci riesce? No, non si allena mai per mantenersi in forma,
neanche per i muscoli di spalle e schiena, pur fortemente sollecitati nel suo
lavoro. Pare sia tutta questione di geni. A luglio ha compiuto 81 anni e, ancor
prima della nostra domanda, il Maestro comincia:
Riccardo Muti: L’Italia è il Paese del belcanto. Viene il dubbio se questa
parola sia un complimento o un insulto. Perché se per belcanto intendiamo il
Vincerò urlato per ore [dall’aria Nessun dorma della Turandot di Puccini, N.d.R.],
allora parliamo di un fastidio insopportabile: si tiene lunga una nota che
tutti sanno dover terminare prima o poi. E, quando succede, si ha come un senso
di liberazione. L’opera italiana ama fare uso di questi trucchetti.
Die Zeit: Si è anche infastidito apertamente quando numerosi partecipanti
alla Conferenza dei Ministri della Cultura del Mediterraneo, lo scorso giugno a
Napoli, si sono uniti nel canto del Vincerò la sera della visita all’Opera.
Muti: Sì. E mentre cantavano il Vincerò, li vedevo intenti ad armeggiare
con i cellulari e a rispondere alle telefonate. Tutto questo nel Teatro di San
Carlo, probabilmente il Teatro d’Opera storico più importante al mondo, fondato
nel 1737 e di circa 40 anni precedente persino alla Scala.
Zeit: Oggi ha diretto al Festival di Salisburgo, che a sua volta esiste da
più di 100 anni ormai. Proprio al termine del concerto, durante il Prologo in
cielo (dal Mefistofele di Arrigo Boito), una ragazza del coro è svenuta. Lei e
l’orchestra siete riusciti a mantenere la concentrazione in una situazione del
genere?
Muti: Sono cose che capitano di continuo. Quando succede in prova, si può
interrompere immediatamente. Questa volta, però, eravamo in pieno concerto, per
di più in diretta sulla radio austriaca ORF. In quel momento, io e l’orchestra
abbiamo avuto un attimo di esitazione e per qualche secondo sono stato sul
punto di interrompere, ma poi in radio avrebbero dovuto chiarire l’accaduto.
Fortunatamente si è trattato solo di un brutto mal di stomaco, tuttavia sono
momenti drammatici in cui continui a dirigere, ma non sai se sia appena
avvenuta una tragedia. Alla fine, solo la vita conta.
Zeit: Una volta ha dichiarato che il fatto che una performance non sia mai
al 100% la disturba. È stato così anche nel concerto di poco fa?
Muti: Oggi la “ginnastica da podio” è molto di moda, perché le persone sono
sempre più interessate a guardare, più che ad ascoltare, vogliono l’elemento
spettacolo. In realtà si tratta unicamente del prolungamento del nostro
pensiero, come Arturo Toscanini definiva il movimento delle nostre braccia.
Mentre dirigiamo, abbiamo in mente una rappresentazione ideale di ciò che
vogliamo ottenere, un’idea che però non si lascia mai realizzare al cento
percento. La perfezione non esiste: una, due, dieci, venti tesserine di un
mosaico che alla fine non si incastrano.
Zeit: Di questo si rammarica?
Muti: Alla fine, sì. Uno dei momenti più difficili e spiacevoli è quello in
cui hai reso felice il pubblico, ma non sei soddisfatto della tua prestazione.
Ti inchini e ti sforzi di fare una bella espressione ma, a voler essere onesti,
pensi a ciò che non ti è riuscito. Soprattutto con l’opera ho provato questo
contrasto. Nei concerti sinfonici la responsabilità di ciò che fai è tutta tua,
ma nell’opera ci sono la regia, i cantanti, il coro, e di alcuni aspetti rimani
più soddisfatto che di altri.
Zeit: È per questo che non sorride quasi mai, persino durante le ovazioni?
Muti: No, quello ha a che fare con i miei insegnanti a scuola. Per di più
vengo dal profondo sud Italia: sono per metà napoletano e per metà pugliese. La
napoletanità mi ha trasmesso un certo fatalismo, ma anche una visione più
ironica della vita. Il pugliese invece è più incisivo, non sorride quasi mai.
Anche quando fa un complimento ha un’espressione truce. A scuola si diceva:
“Risus abundat in ore stultorum” [“il riso abbonda sulla bocca degli stolti”
N.d.R.].
Zeit: Spesso è insoddisfatto, eppure ha ripetuto più volte che il momento
per lei più felice è quello in cui lascia il palcoscenico. Cosa significa?
Muti: Non lo so esattamente. Mi è capitato di sentire dei colleghi,
soprattutto giovani direttori, che alla richiesta di spiegare cosa provino sul
podio, rispondono: “Profonda felicità, grandissima gioia!”. Io non so di cosa
parlino, neanche un po’. Perché hai una responsabilità enorme nei confronti di
te stesso, dei musicisti, del pubblico, del compositore. Una volta che tutto è
passato, allora ci si sente sollevati.
Zeit: Molti artisti dicono però anche che quando sul palco è finito tutto e
si esce di scena, rimane un senso di vuoto, di malinconia.
Muti: Io non parlerei di malinconia. C’è però una sorta di vuoto a tutti
gli effetti, soprattutto quando il programma ti mette particolarmente alla
prova, come oggi. Quando dai così tanto è come se poi brancolassi nel buio e
non sapessi dove andare. In un certo senso, io mi sento perso.
Zeit: Cosa fa per uscire da questa sensazione?
Muti: Niente. Ho avuto la fortuna di nascere nel sud Italia e di crescere
in un paesino in cui la stravaganza mentale o gli atteggiamenti artistici erano
impensabili. Questo ti fa rimanere con i piedi per terra. In più ho avuto una
madre meravigliosa, ma molto severa.
Zeit: Era severa con lei anche come artista?
Muti: Sì. Nel 1967, quando vinsi il concorso di direzione d’orchestra a
Novara, il teatro era gremito, suonava l’orchestra della RAI e il pubblico
applaudiva me, il giovane sul podio. Mio padre, mia madre e i miei quattro
fratelli, seduti uno accanto all’altro in platea, erano gli unici che non
applaudivano. Mia madre trovava che applaudire un parente fosse segno di
debolezza.
Zeit: E questo non l’ha offesa?
Muti: No. Sono cresciuto così. I miei genitori mi hanno insegnato a stare
con i piedi per terra e a non fare l’artista che va in giro con papillon e
criniera da virtuoso già a dieci anni, come piace fare oggi alla gente.
Zeit: Si dice che Lei sia diventato direttore per puro caso.
Muti: È vero. Ero all’ultimo anno al Conservatorio di Napoli e pensavo di
diplomarmi in pianoforte. Ero un buon pianista. Però, un giorno in cui uno
studente che avrebbe dovuto dirigere l’orchestra era assente, il Direttore del
Conservatorio mi chiamò a sé e mi chiese a bruciapelo: “Hai mai pensato di
dirigere?” Risposi di no. Il che era vero. E lui mi disse: “Ti ho sentito
suonare il pianoforte. Suoni proprio come un direttore.”
Zeit: Che intuizione!
Muti: Già. Chiamò l’insegnante di direzione d’orchestra, che mi mise in
mano la partitura: erano i Concerti per clavicembalo di Bach, quindi qualcosa
di relativamente semplice. E così il giorno dopo mi sono presentato di fronte a
questa orchestra di studenti e ho cominciato a dirigere. Dopo due o tre minuti
era come se il braccio agisse da solo. E ho sentito che la mia professione
doveva essere quella.
Zeit: Fu l’unica coincidenza fortunata nella sua vita artistica?
Muti: Sono stato almeno altrettanto fortunato quando, giovanissimo, feci
domanda per iscrivermi al Conservatorio di Bari. Al tempo vivevo ancora in
Puglia, andavo a scuola a Molfetta e studiavo pianoforte. Fu un caso che
proprio quel giorno si trovasse a Bari Nino Rota, che aveva una cattedra lì, ma
che in realtà al tempo lavorava alla musica per un film di Fellini a Roma. Mi
vide e mi chiese: “E tu chi sei?” Io dissi: “Mi chiamo Muti, vengo da
Molfetta”. E lui: “Allora fammi un po’ sentire cosa sai fare”. Suonai un paio
di pezzi al pianoforte. Alla fine si alzò e disse: “Ti diamo un dieci e lode
per ogni esecuzione, ma non tanto per come hai suonato oggi, quanto per come
suonerai domani”. Diventare musicista professionista. Non ce lo saremmo mai
immaginato neanche in sogno, né io, né mio padre.
Zeit: Nonostante suo padre fosse molto musicale.
Muti: Aveva una meravigliosa voce da tenore. Tuttavia, quando cominciai a
mostrare interesse per la musica, non per questo mi permise di lasciare il
ginnasio. Secondo lui, diventare musicista per un italiano del sud era come
andare sulla luna. Mio padre era medico, ai suoi occhi fare il musicista non
era una professione. Diceva: “Tutt’al più puoi dirigere l’orchestrina di
Molfetta”.
Zeit: Considera grandi artisti anche compositori cinematografici come Nino
Rota, o popstar come i Beatles?
Muti: Sono dei grandi, ciascuno per il proprio genere. Non tengo in gran
conto la distinzione tra musica più o meno seria.
Zeit: In Germania si fa molto.
Muti: Naturalmente La Passione secondo Matteo di Bach o la Missa Solemnis
di Beethoven sono vere e proprie vette, hanno qualcosa di metafisico. Mi ci
sono voluti cinquant’anni per affrontare la Missa Solemnis. Ma la questione
importante è che la musica abbia una propria sostanza: anche con la musica
leggera, che sia pop, rock o la cosiddetta musica classica contemporanea, si
sente subito se ha valore. Oggi ci sono nel mondo migliaia di compositori i cui
pezzi vengono eseguiti una o due volte, poi scompaiono e non interessano più a nessuno.
RICCARDO MUTI -
ITALIAN NATIONAL ANTHEM/INNO DI MAMELI - SPEECH IN THE ITALIAN PARLIAMENT
Zeit: Ha una spiegazione per questo?
Muti: Ho diretto molta musica contemporanea, perciò non sono certo così
cieco, sordo o retrogrado da sostenere che siano tutte inezie. Credo però,
anche se mi contraddiranno centinaia di volte, che il nostro sistema biologico
sia tarato sul sistema tonale.
Zeit: Cosa significa?
Muti: Ci sono accordi consonanti e accordi dissonanti: la dissonanza genera
in noi tensione, disagio, turbamento. Abbiamo quindi il desiderio che questo
turbamento si risolva, che l’eterno flusso agitato della dissonanza – ora sto
diventando un poeta! – trovi pace nel mare della consonanza. L’intera musica
dal XVII al XX secolo trova fondamento in questa sensazione melodica.
Zeit: E oggi?
Muti: La musica classica di oggi, invece, è molto razionale, si affida a
nuove armonie e combinazioni sonore, all’uso sempre più complesso delle
percussioni. Innesca in noi sensazioni che all’inizio ci eccitano, ma di cui
non rimane nulla. È quindi del tutto possibile che non si possa ancora fare a meno
di questo sistema melodico. Naturalmente, questa sentenza non resterà impunita:
sosterranno tutti che è scandaloso dire una cosa del genere.
Zeit: Cosa esattamente?
Muti: Quando si ascolta la musica contemporanea, il latte diventa ricotta
[ride]. Non ho idea del perché. Evidentemente c’è qualcosa che troviamo
interessante e straordinario, ma che non ci tocca. Magari lo farà tra 200 anni.
Zeit: Forse dipende da come le persone vengono introdotte alla musica.
Muti: Vedremo. A proposito, c’è un’altra cosa che non capisco: perché la
musica di massa è sempre più superficiale, le canzoni pop in primis?
Zeit: È così?
Muti: Per esempio quando ascolto le canzoni vincitrici del Festival di
Sanremo, noto che sono incredibilmente semplici. I giovani ne sono contenti, ci
si bevono un drink sopra e finisce lì. Al contempo, la cosiddetta musica
classica sta diventando sempre più complicata. Tra l’una e l’altra si è creato
uno strano abisso, pare che non vi siano più punti di contatto. Robert Schumann
una volta paragonò il mestiere del compositore a quello del calzolaio e la
musica scritta da Mozart a un paio di scarpe che si adatta a tutti. Oggi
facciamo scarpe per pochi intellettuali che hanno un debole per queste nuove forme,
suoni e armonie. Non ha più nulla a che vedere con la musica che “muove il
cuore di ognuno”. Ma, nonostante il politically correct, bisogna avere il
coraggio di dire ciò che è indispensabile per la convivenza umana. E questo
vale anche per la musica: quando ci ostiniamo solo su ciò che si può o non si
può dire o fare, disumanizziamo l’umanità.
Zeit: Quando lo scorso giugno a Chicago ha diretto Un ballo in maschera di
Verdi, ha deciso di conservare un discusso testo originale nel primo atto, che
contiene la parola che inizia per “n”. Alla Scala e altrove era già stato
cancellato o modificato. Era davvero necessario?
Muti: Cambiare la frase alla Scala non aveva alcun senso. È importante che
le prossime generazioni sappiano cosa era concesso in passato, nel bene e nel
male. D’altra parte, al David di Michelangelo non mettiamo mica le mutande.
Zeit: Non ammette l’argomentazione secondo cui una parte della popolazione
oggi si sentirebbe attaccata o sminuita e che l’opera possa essere modificata
di conseguenza?
Muti: Perché uno dovrebbe sentirsi sminuito?
Zeit: In questo caso, perché le minoranze oggi non vogliono più essere
discriminate in base al colore della propria pelle.
Muti: Io la vedo diversamente. Oggi sappiamo che la discriminazione, sia
essa etnica o sessuale, è un tremendo errore. Ma dobbiamo dire ai giovani:
“Guardate! Questi errori sono stati fatti in passato, quindi state attenti a
non cadere nelle stesse trappole”.
Zeit: Quindi tiene distinto il personaggio di Verdi dalle idee personali di
Verdi?
Muti: Certamente. Modificare questo pezzo del Ballo in Maschera è stato un
errore da parte della Scala, del Metropolitan e di tutti gli altri teatri
d’opera. Soprattutto non lo hanno capito: nell’opera il giudice, un uomo
bianco, definisce l’indovina Ulrica di “immondo sangue dei negri” [dal libretto
originale]. È una frase mostruosa. Verdi, però, mettendola in bocca al giudice
bianco, lo rende ridicolo, lo smaschera. Non solo: il governatore di Boston e
soprattutto Oscar, suo paggio, la difendono e, giustamente, si esprimono perché
le sia usata clemenza. È giusto, quindi, far sapere alle persone cosa fu
scritto e perché. Cambiarlo significherebbe fare di Verdi un razzista.
Zeit: Ha avuto la possibilità di trasmettere questo suo punto di vista a Chicago?
Il tenore che ha cantato la parte del giudice era un sudafricano di colore,
Lunga Eric Hallam.
Muti: Eccome. In merito non ho neanche dovuto consultare il Sindaco (di
colore) di Chicago, Lori Lightfoot, di cui ho grande stima. Ho chiarito il mio
pensiero e ho detto a Lunga Eric Hallam che avremmo trovato un’altra soluzione,
se fosse stato restio a pronunciare questa frase. Mi ha risposto: “Maestro,
dopo questo chiarimento, non ho alcun problema a farlo”. Quando sono in un
posto in cui si dà molto valore al politically correct, so che non devo
superare certi confini per non offendere nessuno.
Zeit: Ma pensa che sia giusto o lo vive come una costrizione?
Muti: Più che altro lo trovo esagerato. A Chicago una volta ho usato la
parola oriental in una prova e durante la successiva pausa mi è stato
cortesemente fatto notare: “Maestro, sarebbe meglio che al posto di oriental
usasse il termine asian”. Ho cercato di spiegare che non sono bravo con queste
cose: “Mi dispiace, ma sono cresciuto con questa parola, per me l’Oriente è
qualcosa di meraviglioso. Inoltre: se loro sono asiatici, io cosa sarei?”. La
risposta fu: “You’re caucasian”. Dissi: “Se io dicessi a un contadino di
Molfetta Lei è caucasico, lo prenderebbe per un insulto e mi farebbe fuori”
[ride].
Zeit: Tra le tante città della sua biografia musicale, Firenze, Chicago,
Milano, Berlino, Philadelphia, Salisburgo o Vienna, ce n’è una che l’ha segnata
in modo particolare?
Muti: Tutte le città che ha appena citato hanno contribuito alla mia
crescita e di questo sono grato alle orchestre, perché è un equivoco pensare
che il nuovo direttore insegni qualcosa all’orchestra e la istruisca. Fin
dall’inizio è chiaro che l’orchestra spesso la sa molto più lunga del
direttore.
Zeit: Lo sapeva anche da principiante?
Muti: Sì. Avrei dovuto dire io, pivello, ciò che volevo e ciò che avevo in
mente a un’orchestra che per trent’anni aveva suonato la Settima di Beethoven con
i più grandi direttori d’orchestra? Un direttore intelligente sa sempre di
poter ricevere e imparare molto dall’orchestra. Così è stato per me, con tutte
le orchestre con cui ho collaborato.
Zeit: Torniamo alle città in cui ha lavorato.
Muti: Firenze è la città in cui tutto ha avuto inizio. Anche oggi, quando
sono lì, la gente dice: “Guarda, è tornato Muti”. I miei figli sono nati lì.
Londra è stato il mio primo grande passo internazionale. Philadelphia è stata
la mia prima grande orchestra americana, Berlino mi ha accompagnato per anni,
soprattutto nel periodo di Karajan, e poi naturalmente Salisburgo. La mia
orchestra attuale è la Chicago Symphony Orchestra, che amo molto. Ma la
Filarmonica di Vienna è l’orchestra della mia vita. Dal 1971 a oggi, per me non
c’è stato un solo anno senza di loro.
Zeit: Perché questa orchestra?
Muti: Più di ogni altra orchestra al mondo, i Wiener Philharmoniker hanno
conservato le radici della loro gloriosa tradizione: il fraseggio tipicamente
viennese, impossibile da spiegare, il colore, il suono. Quando gli archi
viennesi suonano, non emettono semplicemente dei suoni, ma parlano, lasciano
risuonare parole e voci, il che è davvero magico. Questa orchestra può regalare
momenti improvvisi di perfetta bellezza… Se il direttore d’orchestra le piace.
Altrimenti, talvolta la collaborazione è estremamente difficile. Di tutte le
nazioni – va be’, lasciamo fuori l’Italia che è la mia patria e guai a chi la
tocca – l’Austria è quella che mi ha dato di più.
Zeit: Quando non si rispecchia nel suono di un’orchestra?
Muti: Quando questa cerca di imitare il suono tecnico dei CD, che fa sì che
orchestre eccellenti e di livello inferiore suonino quasi allo stesso modo.
Zeit: Le sarebbe piaciuto diventare il successore di Herbert von Karajan
alla Filarmonica di Berlino?
Muti: No, assolutamente no. Ho ancora il massimo rispetto e la più assoluta
gratitudine per Karajan, che nel 1971 invitò me, un giovane direttore
d’orchestra sconosciuto, a Salisburgo e alla Filarmonica di Berlino perché
aveva sentito che avevo un certo talento. Era una persona estremamente generosa
che ha aiutato numerosi giovani direttori d’orchestra nella loro carriera. Non
avrei mai avuto il coraggio e la presunzione di voler seguire le sue orme.
Zeit: Ma forse lui avrebbe voluto così.
Muti: Non lo so. Ma ricordo molto bene come Karajan stava preparando il
Ballo in maschera qui a Salisburgo nel 1989 con Plácido Domingo, tra gli altri.
Era molto malato. Una sera tornai a casa tardi e la nostra governante mi riferì
di richiamare il Festival di Salisburgo a qualsiasi ora del giorno o della
notte. Mi rispose il direttore di allora, Franz Willnauer, dicendo: “Maestro,
Karajan è morto stamattina”. Rimasi sconcertato. Pareva che Karajan avesse
fatto un solo nome quando gli era stato chiesto chi avrebbe dovuto dirigere il
suo Ballo in maschera, se necessario: Muti. E per questo motivo ora mi chiedeva
di farlo. Replicai: “Penso che dovreste cancellare lo spettacolo. Karajan non
può essere sostituito, è impossibile”. Mi rispose che la direzione aveva
apprezzato molto la mia reazione, ma che l’opera doveva essere rappresentata.
Può darsi, ho detto, ma di certo non la dirigerò io, perché non ho né la forza,
né il coraggio, né l’audacia di salire sul podio subito dopo la sua morte.
Rifiutai.
Zeit: Chi ha preso il suo posto?
Muti: Georg Solti [tace].
Zeit: Perché non ha mai accettato l’invito a Bayreuth, pur avendo diretto
spesso Wagner?
Muti: Ho fatto tutto di Wagner, solo alla Scala ne ho diretto sei opere. La
prima volta che Wolfgang Wagner volle invitarmi fu nel 1972, ma io dissi: “È
troppo presto per me. Non sono ancora pronto a dirigere un’opera di Wagner,
soprattutto non a Bayreuth”. Alla fine degli anni Ottanta mi offrì Tannhäuser e
andai a Bayreuth per vedere il luogo dove ogni direttore d’orchestra deve
essere stato una volta per capire il suono che Wagner aveva concepito per quel
teatro. L’ho girato tutto e l’ho trovato molto interessante e allettante, ma
non mi è scattata la scintilla. Ho pensato a Salisburgo, alle montagne e alla
vicina Italia e mi sono detto che avrei preferito fare Wagner alla Scala.
Zeit: Per Lei Wagner diretto lì sarebbe stato troppo tedesco?
Muti: No, piuttosto troppo carico del passato.
Zeit: Si sente compreso dai recensori tedeschi, spesso più critici nei suoi
confronti rispetto ai colleghi di altri paesi?
Muti: Per quanto ne so, sì. Leggo le recensioni con una certa leggerezza.
Pare che Hans Knappertsbusch [direttore d’orchestra tedesco, 1888-1965] non
abbia mai letto molte delle proprie critiche, le disprezzava. Verdi le leggeva
e si infuriava perché spesso ne dicevano peste e corna. L’importante è trovare
in esse qualcosa che possa esserci utile. Ma è come si dice a Napoli: fatti un
nome e infischiatene. Ciò che ho realizzato, i critici non possono più distruggerlo.
Zeit: Ma una volta ha detto che i suoi colleghi scomparsi Arturo Toscanini,
Wilhelm Furtwängler e Herbert von Karajan erano molto superiori a lei. Non è un
po’ esagerato?
Muti: No, affatto. Toscanini ha cambiato il modo di approcciare la musica
da parte del direttore d’orchestra. Si considerava un servitore del compositore
e cercava di essere il più fedele possibile al suo lavoro. Furtwängler aveva un
feeling particolare con l’improvvisazione. Con Toscanini il pubblico riceveva
l’atteso, con Furtwängler l’inaspettato, che talvolta comportava
un’imprecisione metrica dell’orchestra quasi impensabile con Toscanini.
Karajan, invece, diede al suono una sublimità, una brillantezza, un colore, una
grandezza e un significato che non erano mai esistiti prima. Questi tre hanno
avuto un’influenza fondamentale su tutti i direttori d’orchestra che sono
venuti dopo di loro.
Zeit: E Lei, per quale contributo dovrebbe essere ricordato?
Muti: Rimarrà qualcosa di me? Non lo so. Gli anni passano e la signora in
nero è sempre più vicina alla mia porta. D’altra parte, l’altro giorno ho letto
sul giornale che una donna è morta a 146 anni. Centoquarantasei, Santo Cielo!
Da qualche parte in Oriente, credo.
Zeit: È troppo modesto!
Muti: Non è falsa modestia, io odio la falsa modestia. Credo di aver fatto
bene il mio lavoro finora. Mi sono dedicato a Verdi e Mozart molto più
intensamente di altri colleghi e c’è un motivo: Verdi e Mozart ci parlano, ci
raccontano di noi stessi in tutta la nostra burlesca tragicità. Se si cerca
consolazione, bisogna ascoltare Mozart, che ci racconta chi siamo, e Verdi, che
alla fine conclude con: “Tutto nel mondo è burla, l’uom è nato burlone” [finale
del Falstaff].
Zeit: Non possiamo lasciarci senza che lei commenti la sua abissale
avversione per la regia teatrale.
Muti: Questo è un argomento serio e difficile che non può essere affrontato
in due minuti. Se vuole davvero parlarne con me, dovremo farlo nella prossima
intervista. È un capitolo a sé, perché è facile dire che chi non ama il teatro
di regia è un conservatore. Negli anni Settanta, quando Luca Ronconi era un
vero rivoluzionario, ho fatto nove produzioni con lui. Quindi posso essere
accusato di tutto, ma non di questo. Io distinguo solo tra registi intelligenti
e registi stupidi, come tutti.