Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah
Via Piangipane, 81 - Ferrara
I. FESTA DEL LIBRO EBRAICO
Torna la Festa del Libro Ebraico, l’annuale appuntamento del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah dedicato alla letteratura italiana e internazionale con approfondimenti, presentazioni ed incontri. Il festival, giunto alla sua undicesima edizione, si terrà negli spazi del MEIS dal 6 all’8 ottobre ed è realizzato grazie al contributo della Regione Emilia-Romagna e al sostegno di Giulio Barbieri OutdoorSolutions, di Coferasta e di Fercam e ha il patrocinio del Comune di Ferrara, dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Comunità ebraica di Ferrara.
A fare da cornice agli eventi sarà la tradizionale capanna adornata da frutta di stagione, la Sukkà, ospitata per la prima volta nel giardino del MEIS. Ogni anno infatti le famiglie ebraiche la costruiscono in occasione della festa ebraica di Sukkot in ricordo del periodo vissuto nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto e per celebrare il raccolto.
Si inizia il 6 ottobre alle 18.00 con l’incontro “Il potere del segno”, una conversazione tra Christian Greco, Direttore del Museo Egizio di Torino, e Amedeo Spagnoletto, Direttore del MEIS, sul mondo della scrittura e l'identità a partire dai caratteri dell’ebraico biblico e dei geroglifici egizi.
Mercoledì 7 ottobre alle ore 16.00 verrà presentato il volume “Archivio e camera oscura - Carteggio 1932-1940” (ed. Adelphi) che raccoglie le lettere tra il filosofo Walter Benjamin e il filosofo e teologo Gershom Scholem: a discuterne con il curatore Saverio Campanini, professore di lingua e letteratura ebraica presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Alma mater studiorum – Università di Bologna, saranno lo storico sociale delle idee David Bidussa e Shaul Bassi, professore all’Università Ca’ Foscari e direttore dell'International Center for the Humanities and Social Change di Ca' Foscari. Segue alle 18.00 la presentazione del catalogo “Oltre il ghetto. Dentro & Fuori” (Silvana Editoriale) pubblicato in occasione della nuova grande mostra del MEIS che verrà inaugurata nel marzo del 2021. Lo racconta Eike Schmidt, Direttore delle Gallerie degli Uffizi - uno dei prestigiosi musei che hanno prestato le loro opere per l’esposizione - assieme alle quattro curatrici Andreina Contessa, Simonetta Della Seta, Carlotta Ferrara degli Uberti e Sharon Reichel.
Giovedì 8 ottobre alle 16.00 il Presidente del MEIS Dario Disegni e l’avvocato ferrarese Marcello Sacerdoti presentano “I racconti di Matilde” di Ermanno Tedeschi (edito dall’Associazione Culturale Acribia): la vera storia di una piccola bambola che ha viaggiato il mondo dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938. Si conclude alle 18.00 con la presentazione del libro “Olocaustico” (ed. Giuntina) firmato dallo scrittore e regista Alberto Caviglia. L'autore dialogherà con Micol Temin, responsabile degli eventi per il Centro di Cultura Ebraica di Roma e Michelle Nahum Sembira, già collaboratrice del MIUR per progetti didattici sulla Shoah e impegnata nella valorizzazione della cultura ebraica.
Tutti gli eventi sono gratuiti, la prenotazione è obbligatoria. Per informazioni e prenotazioni: tel. 0532 1912039 e 342 5476621 (attivi martedì-giovedì 10-13 e 16-18 e venerdì-domenica 10.00-18.00), email: a meis@coopculture.it. In caso di pioggia gli eventi si terranno negli spazi interni del museo.
Gli eventi potranno essere seguiti in diretta sulla pagina Facebook del MEIS @MEISmuseum.
II. GLI EBREI E FERRARA
(foto di Marco Caselli Nirmal)
Gli ebrei e Ferrara, un rapporto millenario e indissolubilmente
intrecciato.
Una storia conosciuta da tutto il mondo ebraico, che racconta momenti di
incontro e integrazione alternati ad altri più bui.
Il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah ha voluto allestire
la mostra "Ferrara ebraica" per spiegare perché il museo sia nato
proprio in questa città e oggi, in tempi di Coronavirus, vuole dare a tutti la
possibilità di visitarla e di conoscere almeno una parte della grande ricchezza
del patrimonio ebraico della città estense.
Cliccando sul sito https://ferraraebraica.meis.museum chiunque potrà fare
un salto virtuale nel tempo, visitare, conoscere, incontrare, approfondire
alcune storie ebraiche ferraresi.
L'esposizione, organizzata pienamente dal MEIS, voluta dal Direttore
Simonetta Della Seta, curata da Sharon Reichel e allestita da Giulia Gallerani,
è un viaggio tra passato e presente che racconta una delle comunità ebraiche
più antiche d'Italia, con una eredità culturale e artistica unica. Oltre a
valorizzare la straordinaria fattura di oggetti cerimoniali e ricostruire
l'ambiente sinagogale, "Ferrara ebraica" si interroga anche sul
rapporto tra gli ebrei e la città, portando alla luce racconti affascinanti
intrecciati con la Storia.
Il percorso è arricchito dal video introduttivo e dalle interviste agli
ebrei ferraresi firmate da Ruggero Gabbai e dalle foto di Marco Caselli Nirmal.
Le musiche della tradizione ebraica ferrarese, incise appositamente per il
MEIS, sono curate ed eseguite da Enrico Fink.
La mostra è stata resa possibile grazie alla collaborazione del Comune di
Ferrara e della Comunità ebraica di Ferrara, che ha prestato al MEIS gran parte
degli oggetti esposti e qui presentati ed è stata sostenuta da Holding Ferrara
Servizi, con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna e dell’Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane. Il video introduttivo è realizzato in collaborazione con
l'Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara con un contributo della Regione
Emilia Romagna, legge Memoria del Novecento.
In un momento di incertezza come quello che stiamo vivendo, il MEIS vuole
condividere almeno in via digitale alcuni dei valori che hanno permesso agli
ebrei di continuare a costruire la loro vita anche in momenti difficili.
"Se io non sono per me, chi è per me? E se io sono solo per me stesso,
cosa sono? E se non ora, quando?" (R. Hillel, Pirkei Avot I:14), dalle
Massime dei Padri.
Con la speranza di riaprire presto le porte del museo, il MEIS non si ferma
e continua ad essere un luogo di libertà, scambio di opinioni e condivisione di
idee.
Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della
Shoah - MEIS
Réalisé par le juif vénézuélien Jonathan Jakubowicz, il explore les
jeunes années de Marcel Marceau, quand il s’est allié à son frère et à son
cousin pour aider des orphelins juifs
NEW YORK — Quand je mentionne le nom de Marcel Marceau, à quoi
pensez-vous donc ? A un type au visage peint en blanc, éphémère serveur de
bistrot ? Ou à l’intérieur d’une boîte invisible ? Ou incarnant le seul rôle
parlé dans « La dernière folie » de Mel Brooks ? Eh bien, à part avoir été le
mime le plus célèbre du monde, il s’avère que ce grand artiste juif français a
également été pas moins qu’un héros pendant la Seconde Guerre mondiale.
Un nouveau film appelé « Résistance » et réalisé par le juif vénézuélien
Jonathan Jakubowicz explore les jeunes années de Marceau, pendant lesquelles le
comédien en herbe s’est allié à son frère et à son cousin pour venir en aide à
des orphelins juifs. C’est à ce moment-là qu’il aurait utilisé pour la première
fois ses talents de clown, et ses capacités devaient être précieuses pour
calmer les enfants alors qu’il leur faisait passer la frontière séparant la
France et la Suisse.
Le film, disponible en streaming et sur demande en Amérique du nord
depuis le 27 mars, amplifie très certainement ce qu’a été la réalité à des fins
dramatiques. Je doute que Marceau ait autant rencontré en face à face « le
boucher de Lyon », Klaus Barbie. Et il est impossible qu’il ait utilisé ses «
pouvoirs de cirque » pour envoyer une boule de feu sur les gardes de la Gestapo
en un seul souffle, permettant ainsi à des gens de s’évader d’un camion de la
police. Mais l’histoire sous-jacente – et en particulier les passages de la
frontière en Suisse – sont vraies.
J’ai eu la chance de m’entretenir, il y a quelques semaines, avec
Jakubowicz – bien avant que le COVID-19 ne vienne bouleverser nos existences.
Vous pourrez découvrir ci-dessous une retranscription révisée de notre
conversation.
Je viens tout juste d’apprendre que « Résistance » va être projeté
lors du festival du film de la mer Rouge inaugural en Arabie saoudite. C’est
significatif parce que – je n’ai pas à vous le dire – les histoires sur les
Juifs et la Shoah ne sont pas souvent mises en avant dans le monde arabe.
J’ai reçu un message très émouvant de la part du directeur du
festival, le réalisateur saoudien Mahmoud Sabbagh. Il m’a parlé de l’utilité de
l’art pour briser les barrières historiques entre les cultures. Je sais combien
le négationnisme de la Shoah est fort dans certaines parties du monde arabe et
il n’y a donc probablement aucune autre région de la planète qui ait davantage
besoin d’entendre le message transmis par le film. Je ne pense pas qu’un film
sur la Shoah ait été présenté dans le monde arabe – et ce n’est assurément pas
le cas en Arabie saoudite.
Est-ce que vous irez
à la Première ?
Je ne le sais pas encore.
(Nota bene: Comme on le dit en Yiddish, « Mann
tracht, Gott lacht » – « l’homme prévoit, Dieu en rit » – . Le festival du film
de la mer Rouge a été annulé depuis en raison de la pandémie de COVID-19.)
Je vais le confesser : C’est sûr, j’ai déjà entendu parler de
Marcel Marceau ; j’ai même vu une vidéo ou deux de ce qu’il faisait. Mais
j’ignorais totalement qu’il avait été un membre juif de la résistance
française.
C’était aussi mon cas. Et c’est la raison pour
laquelle je suis devenu dingue quand j’ai entendu cette histoire. J’avais lu un
article à ce sujet dans Open Culture et cela m’avait fasciné. Des histoires de
la Seconde Guerre mondiale, j’en avais entendu pendant toute ma vie – il y a
des survivants de la Shoah des deux côtés de ma famille – mais je n’avais
jamais eu le sentiment que je pourrais en faire un film. C’était trop proche de
moi.
Mais il y a quelque chose, dans ce qu’a fait Marcel Marceau, qui a
réellement retenu mon attention. Ça parle d’espoir, de la manière dont il a
sauvé des enfants. J’ai commencé à faire des recherches puis j’ai rencontré
Georges Loinger, leader de la résistance qui était à la tête des Scouts juifs
et qui était le cousin germain de Marcel. Nous nous sommes rencontrés à Paris,
il avait 106 ans. Et il m’a offert un aperçu de première main sur la manière
dont s’étaient déroulées les opérations.
Marcel Marceau
photographié à Paris, le 12 février 2003 (Crédit :AP Photo/Laurent Emmanuel)
Entendre une histoire racontée par un homme de 106 ans – cela m’a
obsédé. Et j’ai été sidéré par le fait qu’aucun film n’ait été réalisé sur le
sujet auparavant.
Malheureusement, Georges est mort à l’âge de 108 ans lorsque nous
étions en post-production et il n’a donc jamais pu voir le film. Mais nous le
montrerons à la famille.
Et je soupçonne qu’ils vont l’aimer.
Eh bien, Marcel ne s’était jamais considéré comme un héros – ce
qu’il était très clairement. La médaille Wallenberg lui avait été décernée en
2001 et on peut voir son discours sur YouTube à cette occasion – c’est incroyable.
Il parle de sauver la vie de ces enfants, mais il dit qu’en
côtoyant toutes les horreurs qu’il y avait à ce moment-là, c’était impossible
de se considérer comme un héros. Cela ne lui a jamais traversé l’esprit. Il ne
s’était jamais senti à l’aise à l’idée d’être un héros, mais il avait risqué sa
vie. Dans son esprit, c’était ce que n’importe qui d’autre aurait pu faire.
Mais nous savons, bien sûr, que ça n’a pas toujours été le cas.
Pensez-vous que Marcel Marceau a minimisé cette partie de sa biographie ?
Il en a parlé plus tard dans sa vie. Et il a dit qu’il
avait réalisé que cet « art du silence » était le reflet du silence conservé
par les survivants dans les camps. Il a dit, dans de nombreuses interviews,
qu’il y avait un parallèle à faire ici.
Je pense qu’il avait tenté de dissimuler cet héroïsme affiché en
temps de guerre parce qu’il voulait que l’art transmette un message d’unité,
mais si vous regardez certaines de ses chorégraphies au sujet des soldats,
alors vous y verrez l’expression de la compréhension de la souffrance. Il était un mime, sans utiliser le langage, qui tentait de transmettre un
message de paix. Quand j’ai reçu cette invitation depuis l’Arabie saoudite,
j’ai pensé que oui, c’était quelque chose du message de Marcel Marceau qui
était en train de se réaliser.
J’ai vu votre précédent film, « Hands of Stone
», qui raconte l’histoire du boxeur Roberto Durán et, au moins du point de vue
de la réalisation, les deux hommes utilisent le mouvement comme forme
d’expression. Que ce soit avec le mime ou, vous savez, en utilisant le
punching-ball. Avez-vous trouvé des similarités en tournant ces séquences ?
Plus vous filmez, plus vous vous améliorez. Plus vous avez de
raccourcis. Alors oui, nous avons approché les combats de « Hands of Stone »
comme une danse – c’était mon approche artistique. Mon compositeur m’a montré
que j’avais mis en place des modèles – même s’ils ne m’avaient pas sauté aux
yeux de prime abord.
Le casting de ce film est essentiel. Et Jesse
Eisenberg est le choix parfait.
J’ai écrit le film en pensant à lui. Sa mère
était clown professionnel – croyez-le ou non. Il a donc grandi en la voyant
peindre son visage pour aller travailler. Et il a perdu une partie de sa
famille pendant la Shoah. Il a également une ressemblance physique avec Marcel
mais, également, Jesse conserve une sorte d’arrogance artistique – comme Marcel
– au moins au début du film.
Il a lu le script très rapidement et il a
fallu peu de temps pour le convaincre de participer au film. Et cela a été une
collaboration merveilleuse. Il avait de nombreuses idées formidables. Il a aidé à donner sa forme au film. C’est un génie créatif ; c’est un
privilège de travailler avec une personnalité comme celle-là.
Je ne pense pas qu’il réalise qu’il est une
star du cinéma. C’est un intellectuel, c’est un lecteur et un père formidable. Il y avait de
nombreux enfants sur le tournage – les miens, ceux des autres membres de
l’équipe – et tous couraient partout, ce qui était très particulier parce que
le film parlait du secours apporté aux enfants pendant la guerre. Tourner un
film sur la Shoah en Allemagne, comme ça, ça a été très spécial.
Oh, vous n’avez pas
tourné en France ?
En Allemagne pour les intérieurs et en République tchèque pour les
extérieurs. On avait regardé des sites en France, mais ils étaient trop
modernisés. Les endroits qui n’avaient pas changé étaient bondés de touristes.
Alors j’ai parlé avec des amis réalisateurs, en France, et il m’ont dit : « Va
à Prague – c’est là où on va tous ».
Se trouver en Europe et réaliser un film sur l’antisémitisme a dû
être intéressant à l’heure actuelle au vu de l’augmentation des incidents antisémites
qui a été enregistrée dans la région.
C’est indéniable. L’antisémitisme est de retour. C’est, en partie, ce qui m’a motivé à faire le film. Mais cela nous a aussi
motivé lorsqu’on tournait.
Si vous vous rappelez de la scène sous le pont
– pas de Spoiler, mais vous devez vous souvenir que c’est une scène remplie
d’émotion, qui succède à un incident terrible – elle a été tournée précisément
au lendemain du massacre de la synagogue Tree of Life de Pittsburgh [le 27
octobre 2018]. Et nous nous trouvions alors à Nuremberg. Que Jesse et moi, nous
nous soyons trouvés à Nuremberg, en train de tourner un film sur le nazisme,
vingt-quatre heures après que des Juifs ont été tués dans une synagogue aux Etats-Unis…
Je ne trouve pas les
mots pour décrire ce qu’a été cette journée.
Il y avait ce sentiment de se dire qu’une fois encore, ça
recommençait – avec ce sentiment, également, que nous assumions notre part du
travail.
Pendant que nous étions en Allemagne, malheureusement, nous avons
eu certaines interactions avec des néo-nazis. Il y avait eu une manifestation à
Chemnitz lorsque nous étions là-bas. Cette ville était à environ 90 kilomètres
de là où nous nous trouvions. Il y avait d’ailleurs eu un état d’urgence face
aux nazis qui avait été mis en place à Dresden alors que nous étions là-bas.
Ed Harris dans le rôle de George S. Patton
dans ‘Resistance.’ (Autorisation : IFC Films)
Un jour, nous nous trouvions dans une piscine
municipale et un néo-nazi était présent. Il est arrivé au bord du bassin et il
arborait sur tout son dos un tatouage avec le mot « Aryen ». Et il y avait
environ 100 Allemands autour de nous, et personne n’a rien dit. Tout le monde a détourné le regard, personne ne voulait avoir des
problèmes.
Le pantomime français Marcel Marceau sur scène
à Berlin, le 2 janvier 1967 (Crédit : AP Photo/Edwin Reichert)
Vous le faites
remarquer à vos amis Allemands et ils vous répondent : « Eh bien, c’est ça,
l’Allemagne. Que faire ? »
Je veux dire, on a travaillé avec de nombreux Allemands
formidables, des libéraux à l’esprit ouvert. Mais, en même temps, il y a
quelque chose de sous-jacent qui s’exprime là-bas et particulièrement dans
l’est.
Il y a eu une fusillade dans un bar à narguilé récemment et, bien
sûr, il y a eu ce qui est arrivé dans une synagogue de Halle, le jour de Yom
Kippour. J’ai été choqué mais pas tant que ça.
Je pense que pour de nombreux Allemands, c’est une question
compliquée. Le passé est si horrible et de tels efforts ont été livrés pour en
venir à bout. Il est impossible pour eux de se dire que c’est réellement
revenu.
Je sais que vous
êtes originaire du Venezuela – même si vous vivez, aujourd’hui, aux Etats-Unis
– est-ce un problème là-bas également ?
Eh bien, j’ai quitté le Venezuela parce que Hugo Chavez n’avait pas
aimé mon premier film et que la chaîne publique officielle ne s’est pas
contentée de m’attaquer, elle l’a fait en utilisant des propos antisémites. Elle a dit que le film relevait d’un complot sioniste contre Chavez et elle
a menacé la communauté juive qui m’avait « laissé » réaliser le film. Le film
n’avait pourtant rien à voir avec les Juifs, Israël ou quoi que ce soit d’autre
– et bien entendu, rien à voir non plus avec Chavez. C’était un film dont le
sujet était un enlèvement.
Mais il comprenait un personnage homosexuel,
un soldat, et Chavez est un homophobe qui a perçu cela comme un délit contre
ses forces armées. C’était effrayant parce que le Venezuela, dans toute son histoire,
a accueilli des Juifs.
Quand ma famille et d’autres sont arrivés là-bas, pendant la
guerre, ils ont tous vécu en totale liberté. Mais Chavez a marqué le tournant.
Ma grand-mère, survivante de la Shoah, était encore en vie à l’époque et ça
avait été très difficile pour elle de voir ce changement. Ça a été difficile
pour moi aussi – j’étais né et j’avais grandi là-bas – et j’ai eu le sentiment
qu’il fallait que je parte parce que j’étais Juif, à peu près de la même
manière que mes parents et mes grands-parents avaient quitté l’Europe parce
qu’ils étaient juifs.
Conservez-vous
l’espoir que le Venezuela redevienne ce qu’il était ?
Des efforts sont livrés dans ce sens mais c’est difficile. Nicolás
Maduro a la mainmise sur l’armée. Ce n’est pas une situation qui pourra être
résolue de l’intérieur et personne ne veut y aller. J’ai écrit un roman
là-dessus. Et je reste en contact avec des gens qui tentent de libérer les
Vénézuéliens.
C’est compliqué, avec des intérêts étrangers, du pétrole. Le pays
n’appartient plus aux Vénézuéliens. Il y a eu récemment un scandale, le
Venezuela a fait imprimer 11 000 passeports pour des Syriens. Un grand nombre
d’entre eux sont liés à des activités terroristes. Le pays est devenu un pôle
du crime.
J’ai lu votre roman, « The Adventures of Juan Planchard », qu’il
faut lire pour comprendre l’Amérique du sud aujourd’hui. Y a-t-il une chance qu’il devienne un film ?
Non, mais peut-être une série. C’est trop
vaste pour un film. Mais en tout cas, le roman est en cours d’adaptation pour devenir
une pièce de théâtre. Il est adapté par [l’auteur juif vénézuélien] Moisés
Kaufman, qui s’est vu remettre la médaille nationale des Arts et des sciences
humaines par [l’ex-président américain Barack] Obama – c’était la première fois
qu’elle est décernée à un Vénézuélien. Je ne le pensais pas quand je
l’écrivais, à cette adaptation, mais les choses continuent à empirer. En
particulier parce que maintenant, d’autres pays s’intéressent au Venezuela. On
a été ignorés pendant 22 ans, mais maintenant, on s’intéresse à nous.
J’ai vu tant de films sur la Shoah ! Trop, franchement. Mais dans votre film, il y a une scène qui m’a giflé au
visage. Marcel est en train
de parler avec d’autres membres de la résistance qui ne sont pas Juifs. Ils
sont antinazis, c’est sûr, mais il y a une déconnexion sur la nature de
l’antisémitisme. Ce sont des gens qui se trouvent clairement du côté des Juifs
mais ils ne comprennent pas ce qu’est l’antisémitisme. Peut-être d’ailleurs
qu’ils se moquent de réellement le comprendre.
L’antisémitisme est unique. Ce n’est pas le racisme ou
l’homophobie. On le trouve à gauche, à droite et au centre et dans des cultures
différentes. J’ai eu le sentiment que c’était important d’entendre le point de
vue d’une intellectuelle française de la résistance, qui a son point de vue sur
l’origine de l’antisémitisme. Elle pense que cette origine est métaphorique,
que les Juifs qui se sont libérés de l’esclavage en Egypte sont devenus un
symbole de l’émancipation et qu’ils incarnent donc une menace pour les
dictateurs. Ce type de chose à laquelle aucun Juif ne penserait jamais !
Je suis content que vous ayez aimé ça. Ça a été, en fait, l’un des
moments les plus difficiles à faire entrer dans le film.
Aciman tried for years to write a sequel to 'Call Me by Your Name'
but struggled to find a way in; a chance encounter led to a breakthrough
BY RICH JUZWIAK OCTOBER 25, 2019
Twelve years after the release of André Aciman’s modern queer
classic Call Me By Your Name, the author has done what once seemed impossible
to him: he’s written a follow-up. Readers have long wondered what happens to
Elio and Oliver after the summer they fall in love in the Italian countryside —
particularly since the 2017 film adaptation starring Timothée Chalamet and
Armie Hammer turned the story into a phenomenon — and Aciman is finally ready
to provide answers.
But Aciman says that Find Me, coming Oct. 29, is not an “obvious
sequel.” In an exclusive interview with TIME, the author explains why he chose
to enter the story not through Elio or Oliver but instead through Elio’s father
Samuel. Find Me does not simply continue where Call Me By Your Name left off —
the new book’s dialogue-heavy vignettes fill in gaps left in the final chapter
of the original, which flashed forward into brief scenes of the 20 years after
Elio and Oliver’s intimate summer. A book that muses on big themes of love,
fate and the effects of time, Find Me provides a lot to discover between the
lines. Aciman answered all our biggest questions about the Call Me By Your Name
sequel.
Why did Aciman finally decide to write a sequel?
It had something to do with Aciman finally writing a follow-up that
satisfied him after years of trying, and something to do with his meeting a
stranger on a train in 2016. A woman asked him to watch her dog while she
stepped away, and he found himself crafting a scene around her. That scene became the opening of Find Me, with Samuel finding himself drawn
to a woman half his age on a train to visit Elio in Rome.
But mostly, Aciman reinvested because Elio and Oliver never left
him. “I love the characters,” he tells TIME. “It was wonderful to spend time
with them when they were younger and it’s still wonderful to be with them again
and to find [years later] they really haven’t gotten much older.”
Elio was the narrator of the first book; is Find Me also told from
his point of view?
In some sections, yes. The book is split into
four chapters, the first two taking up the lion’s share of pages. Elio’s longer
section is the second; his father Samuel handles the first (titled “Tempo”).
Samuel provided an emotional crescendo in Call Me By Your Name (as well as the
film adaption) with his monologue expressing total acceptance of his son’s love
for another man. Aciman explains that there were certain thematic beats he
wanted to hit before handing the mic to Elio.
“I needed to get a lot of things set up,
particularly the discussion about the fact that we are not in sync with either
time or life itself,” he says. The book starts 10 years after the events of the
first novel, with the conversation between a now-divorced Samuel and Miranda,
the woman on the train. Their discussion chugs along at a speed to match the
locomotive, and it becomes clearer and clearer that romance is brewing.
Chapter Two (“Cadenza”) presents the age
dynamic in reverse, as Elio tells of his infatuation in France with a man at
least twice his age named Michel. Chapter Three (“Capriccio”) touches base with
Oliver in New York, and Elio returns in the book’s closing chapter, “Da Capo.”
Wait, wasn’t Samuel still married 10 years after Elio and Oliver’s
summer?
Yes, Call Me By Your Name superfans might recall that when Oliver
returns to the house he stayed in that magical summer 11 years later, there is
no indication that Elio’s parents have split up.
“It happens,” Aciman says of the narrative
discrepancy. “You just don’t do the math — you go with what you think.”
Whatever Samuel was in Call Me By Your Name, he is indeed single when we meet
him again in Find Me.
Let's Talk About
FIND ME... (Call Me By Your Name #2)
What happens with Oliver in Find Me?
Aciman has previously talked about Oliver being hard for him to
access, telling Vulture, “I don’t know who he is. I’ve never been in his head.”
But he shifts easily into Oliver’s perspective for the first time in the
sequel. “He got older,” Aciman says. When Find Me catches up with Oliver, after
a few time shifts, he’s around 40 years old. “He’s the kind of guy who says, ‘I
used to be able to do this. What happened to me?’” Aciman says. “He’s
basically realizing he’s no longer the prime candidate in other people’s lives.
Other people have their own lives, their own partners, and they’re not going to
give them up for him.” Aciman describes Oliver as facing questions about the life he has
lived and how he thinks about his own character. “When someone has some kind of
internal hurdle,” the author says, “then I can understand them.”
Aciman is big on intergenerational romance, isn’t he?
Indeed, at least in this literary universe.
The age differences between lovers in Find Me almost feel like Aciman is
doubling down in response to the (relatively minimal) criticism Call Me By Your
Name received for portraying a love affair between a 17-year-old and a
24-year-old. That said, everyone in Find Me is grown up — just some more than
others.
“For an older person, a person who’s significantly younger is
always filled with energy, with promise,” Aciman says. Miranda is in her 30s,
while Samuel is in his late 50s or early 60s, and Aciman sees them each
providing something the other needs. “She brings a degree of energy that he
doesn’t have,” he says. “On the other hand, he brings a sense of distance and
equanimity and reason and wisdom.”
While Aciman says he is sensitive to the criticism of the first
book, he doesn’t necessarily agree with it. “That’s the novel that came into my
head and that’s how I wrote it,” he says. “It was also a very, very, very
consensual relationship.”
Why are the chapter titles in Find Me musical terms?
Aciman is a deep admirer of classical music. He tells TIME he wanted to use musical terms “Tempo,” “Cadenza,”
“Capriccio” and “Da Capo” to underline the theme of music throughout the novel.
Elio has grown up to be an accomplished pianist and the owner of an
encyclopedic knowledge of the art form.
“I wanted to say that classical music is a way
of partitioning the lives of these people,” he says. His characters not only
love classical music, but also have the cosmopolitan sophistication and a
musical way of speaking that evokes it. “These people have lives that could be,
in theory, seen from the vantage point of classical music. It gives a certain
coherence to everything about them.”
Will the Call Me By Your Name sequel be made
into a film?
Fans are eager for a second film — and
Chalamet himself has said he and Hammer are “1000% in.” Luca Guadagnino, the
director of the Call Me By Your Name film, has spoken about writing a sequel
that prominently features the AIDS crisis. The filmmaker tells TIME that he
would like to meet with Aciman, who collaborated with him on the original film,
to discuss combining their visions.
Didn’t Elio and Oliver part ways for good at
the first book’s conclusion? Are we being set up for more heartbreak?
Aciman has a coy answer for this most burning of questions about
the Call Me By Your Name sequel. “At the end of Call Me By Your Name, everybody
assumes that they’re separating,” Aciman says. “I didn’t say that. I said this
is what might happen. I might take him to the door of the car and say goodbye
to him.” Aciman reminds us that these lines are all in Elio’s head, so nothing
is definite.
Find Me suggests in all manner of ways that good things come to
those who wait.
Solo poche settimane sono trascorse dalla
splendida edizione dell'Eugenio Onegin in scena al Teatro dell'Opera di Roma e,
come per tutti, anche la vita di Saimir Pirgu è cambiata. La sua squisita
musicalità e la bellezza del fraseggio possono risuonare oggi solo fra le
pareti della sua casa. La sensibilità dell'artista traspare in quel che dice,
schiettamente, mentre parla di ruoli futuri e passati e di come la
quotidianità, la routine e l'agenda lavorativa siano state sconvolte dalle
restrizioni necessarie alla lotta contro il nemico silente eppur veloce che
minaccia il mondo intero.
Amneris vagante riprende il discorso proprio
da dove si era interrotto, da Lenskij, ponte ideale tra passato, presente e
futuro ma anche porta che introduce al mondo musicale (e non) di Saimir Pirgu.
Ripensando al suo entusiasmante debutto nel
ruolo di Lenskij al Teatro dell’Opera di Roma com’è stata la sua marcia di
avvicinamento al personaggio e per quanto tempo lo ha studiato? Pensa di riprenderlo?
Lenskij è uno di quei bellissimi ruoli che un
tenore spera sempre di cantare. Devo ringraziare il Maestro James Conlon che ha
avuto l’idea di propormi questo ruolo e che mi ha voluto fortemente, in quanto
convintissimo che avrei potuto cantarlo molto bene. Aprendo lo spartito ho
cominciato dall’aria e da lì ho iniziato ad immergermi nel mondo di
Tchaikovsky. Sono andato alla ricerca dei momenti cruciali dell’opera così che,
man mano che andavo avanti nello studio, mi convincevo che il Maestro aveva
avuto ragione a volermi scritturare per la produzione romana. Nella
preparazione ho poi avuto un valido appoggio dai vocal coaches del Met che mi
hanno aiutato a comprendere meglio il personaggio. Mi sono concentrato sulla
storia, sul contesto storico, sul romanzo di Puškin e infine sono passato ad
ascolti del passato finché non ho trovato il "mio" Lenskij, ma
continuando sempre il lavoro di labor limae. A debutto avvenuto e a distanza di
qualche settimana dall'ultima recita romana, mi sento di dire che è uno dei
ruoli più belli che abbia mai cantato e spero di riproporlo presto. Ovvio che
l’entusiasmo di pubblico e critica mi hanno reso felice e mi auguro di
riprendere presto il personaggio .
Lenskij che ruolo occupa all'interno della sua
carriera?Lo vede come una sorta di punto di svolta verso un repertorio più
spinto?
In questo momento lo sento pienamente in linea
con il fisiologico cambiamento vocale. Il naturale sviluppo della voce, dal mio
punto di vista, va costantemente assecondato e deve procedere con gradualità.
Motivo in più per essere contento che il ruolo sia arrivato al momento giusto
sia per quanto riguarda la mia maturità artistica chequella vocale.
Questo momento di grave incertezza dovuto alla
pandemia di corona virus sta causando la sospensione dell’attività teatrale in
Europa e nel mondo intero. La vede come un’opportunità per ripensare alla sua
carriera e al suo futuro o come una costrizione? Attualmente lei dove si trova?
La mia generazione e quella precedente non
sono abituate a situazioni del genere, ma da albanese ho conosciuto momenti
difficili, in primis la crisi del periodo post comunista. Questa nuova
emergenza è arrivata però in modo inaspettato, e avendo ormai dimenticato cosa
sia la guerra, ci troviamo a doverne combattere una, sofisticata e tecnologica,
che non vediamo, annusiamo e percepiamo. Nonostante tutto sono fiducioso e
fermamente convinto che supereremo anche questo periodo di difficoltà. Al
momento mi trovo in Italia e come tutti sono chiuso in casa che finalmente mi
sto godendo. Sono in giro per il mondo per più di 300 giorni all’anno, quindi
sto approfittando di questa situazione per pensare, riflettere, studiare,
leggere, guardare e ascoltare. Il mio modo di prepararmi a tornare in teatro
più forte di prima è proprio questo.
A questo proposito avere molto più tempo del
solito da dedicare allo studio come influisce sui suoi ritmi quotidiani? E come
vive l'assenza dal palcoscenico?
Ovviamente non posso cantare giornate intere
sia perchè l’organo fonatorio è vivo e non bisogna abusarne, sia perché non è
il caso di disturbare il vicinato che già mi sopporta abbastanza. Canto il
giusto e ritengo che anche studiare stando in silenzio sia estremamente
proficuo. Di certo questa situazione è per me del tutto anomala e un po’
forzata; il tempo, una tra le cose più preziose fino a pochi giorni fa, è
d’improvviso diventato tantissimo, molti sono i momenti di ripiegamento ed
inevitabili quelli di vuoto in cui sopraggiunge la malinconia. Sin da bambino
ho deciso che la musica sarebbe stata la mia vita e così è stato. Quindi non
sono preparato a fare altro e non è facile star lontano dal palcoscenico dopo
averlo vissuto con intensità per 18 anni. E’ un periodo difficile e mi auguro
che questo male possa essere sconfitto quanto prima e che la normalità, la
quotidianità che tanto rimpiangiamo possa essere al più presto restituita a
tutti.
Teatro dell'Opera di Roma - Eugenio Onegin -
Ph. Yasuko Kageyama
Proprio il maggiore tempo a disposizione le
consente di studiare approfonditamente nuovi ruoli. Quali sono? Quali programmi
futuri a breve o medio termine ha?
In realtà stavo preparando l’Amleto di Faccio
che sarebbe dovuto andare in scena a fine mese a Verona. Con l’ondata di
restrizioni e la chiusura dei teatri il progetto è stato abbandonato ed è un
peccato in quanto mi stavo appassionando a questa scrittura musicale
completamente nuova per me. Attualmente si sta però tentando di
ricalendarizzarla. Il prossimo anno mi vedrà impegnato in due nuovi importanti
debutti: il primo è con I racconti di Hoffmann che canterò in una nuova
produzione all’Opernhaus di Zurigo. Questo mi consentirà di continuare
l'esplorazione del repertorio francese che ho già affrontato nel recente
passato cantando nel Werther, in Roméo et Juliette e in Carmen. Hoffmann è
senza dubbio un ruolo complesso, si avvicina però molto a quello di Faust che
ho affrontato sia nell’opera di Gounod che ne La Damnation di Berlioz, quindi
penso di riuscire a padroneggiarlo. Altro debutto a cui tengo avverrà alla
Deutsche Oper di Berlino e si tratterà di Ruggero nella Rondine. Per molti anni
ho avuto timore di accostarmici pur essendo già entrato nell'universo
pucciniano con Bohème e Butterfly. Ritengo che Puccini debba essere affrontato
sempre con cautela e lo stesso vale per il Verismo. Senza dubbio è musica ben
scritta e bellissima, ma non bisogna lasciarsi travolgere dal melodismo,
altrimenti si rischia di eseguirla con poca cura, banalizzandola. Fondamentale
è possedere una tecnica molto solida prima di affrontare Puccini, quindi fare
molta attenzione a non forzare mai poichè si tratta di una scrittura poderosa e
la tessitura è solitamente impegnativa ed insidiosa.
A proposito della costruzione di una carriera
come effettua la scelta fra i numerosi progetti che le offrono? Qual è
l'elemento a cui dà più valore nelle proposte che riceve?
In tutta la mia carriera ho sempre scelto la
qualità. Misurarmi con colleghi di valore ed avere un ottimo direttore insieme
ad un regista che conosce il mestiere sono tre componenti imprescindibili che
devono armonizzarsi. Se uno di questi elementi manca o è in sott'ordine non ci
può essere un successo pieno. D'altronde confrontarsi con individualità di
ottimo livello aiuta molto a crescere. Personalmente trovo molto stimolanti le
nuove produzioni perché sì dà più importanza al momento creativo, insieme si dà
vita a ciò che prima era solo su carta o nella mente del singolo artista. Un
lungo periodo di prove ti dà più tempo per metabolizzare e perfezionare
l'interpretazione. Non dimentichiamoci che si tratta pur sempre di "teatro
musicale".
Ripensando agli inizi della carriera la sua
parabola artistica è iniziata correttamente con Mozart e il belcanto per
arrivare oggi al repertorio prettamente lirico. Alla luce della sua esperienza
quasi ventennale cosa vuol dire per lei passare dal repertorio italiano a
quello francese e organizzare l'agenda degli impegni futuri in base alle scelte
di repertorio?
Sono orgoglioso di avere l’albanese come
lingua madre in quanto è una lingua antichissima, fra le più antiche d’Europa.
Tra l'altro è ricca di suoni e le tante lettere dell’alfabeto mi aiutano molto
a riconoscere e riprodurre i suoni di molti idiomi consentendomi di affrontare
ruoli operistici in lingue diverse. La facilità linguistica, tuttavia, non va
completamente di pari passo con quella tecnica. Cerco di non mescolare troppo i
diversi repertori e comunque mi prendo sempre del tempo per riorganizzare le
idee e la tecnica nel passaggio da un repertorio all’altro. Sebben ultimamente
canti maggiormente in italiano ed in francese, la mia matrice operistica rimane
sempre l’italiano che cerco di applicare anche alla lingua francese.
Perchè il repertorio tedesco è così ostico per
chi, come dice lei, ha una matrice operistica che affonda le radici nell'opera
italiana? A suo parere qual è la difficoltà maggiore per un cantante non tedesco/nordeuropeo
nell'affrontare quel repertorio?
La lingua principalmente, che è molto diversa
da quella latina, e la giusta maturità vocale per ogni singolo ruolo di questa
"Fach". Dopodichè sono del parere che un buon cantante possa cantare
bene tutto, proprio come hanno fatto molti grandi del passato. Io personalmente
ritengo anche che sia necessaria molta cautela nel cimentarsi con questo
repertorio che richiede, come ho già affermato, un’ulteriore maturità vocale.
Probabilmente però inserirò qualche ruolo tedesco nel prossimo decennio.
Wiener Staatsoper - Elisir d'amore- Michael
Poehn
Lei ha raggiunto ormai grande solidità e
maturità vocale grazie ad un registro centrale che si è molto irrobustito negli
anni e ad un legato impeccabile. A questo punto prevede di affrontare in futuro
ruoli più pesanti? Quali?
La mia formazione lirica è italiana e la
scuola italiana ci insegna che cantando bene e al momento giusto è possibile
cantare tutto. Lauri Volpi, Gigli, Raimondi, Corelli, Di Stefano hanno iniziato
con il repertorio leggero o lirico e si sono spostati poi verso un repertorio
più drammatico. Tutto dipende dalla salute del cantante, dalla salute della
voce e da come la si cura specialmente dal punto di vista tecnico. Ho iniziato
un ventennio fa con Elisir d’amore e Don Giovanni e continuerò ad essere aperto
ad ogni sviluppo senza paura, continuando ad ascoltare con coscienza
l’andamento filsiologico della mia voce e a sperimentare i nuovi ruoli con le
dovute cautele.
Proprio la sua estrema integrità interpretativa
e la sua affidabilità la mettono oggi in una posizione di forza nei confronti
dei grandi teatri che la scritturano. Ritiene di avere una maggiore capacità
propositiva nel suggerire ai direttori del cast ruoli che le piacciono e che
desidera affrontare?
Dipende, alcune volte sì ed altre no, dipende
dal casting director o dal sovraintendente, da quanto loro amino e si fidino
dell’artista e soprattutto anche dalla loro competenza. Ci sono teatri in cui
spesso e volentieri mi è stato chiesto un suggerimento, in altri invece non si
lascia spazio ai desideri degli artisti. Il mondo è cambiato ed è ormai chiaro
come anche il livello delle competenze si sia abbassato. Nel nostro mondo
assistiamo spesso a scambi di ruolo e posizioni al vertice, il che porta ad
azioni e scelte ambigue all'interno dei teatri che arrivano anche a negare ciò
che è evidente. Ciononostante bisogna sempre andare avanti e, personalmente,
rimango sempre dell’idea che il talento sia il miglior biglietto da visita.
Alla luce di queste considerazioni ritiene di
essere padrone della sua vita artistica? Le è mai capitato di sentirsi invece
un po’ prigioniero del sistema che oggi impone ai cantanti di fama come lei
ritmi incalzanti?
Sono padrone delle mie scelte artistiche,
purtroppo meno della mia vita artistica. Rispetto al passato si sono verificati
cambiamenti sostanziali. Per iniziare le distanze che si sono accorciate
enormemente, e poi l'abolizione di una virtuale "classifica" dei
teatri. Si canta ovunque e non esiste più il cantante “di un teatro”, così il
singolo ha sempre meno potere contrattuale nonostante possieda indubbie
capacità artistiche e attrattiva nei confronti del pubblico. La globalizzazione
ha aperto le frontiere e i cantanti bravi, seppur pochi, sono ovunque. Spesso,
però, si investe sulle giovani leve che magari non sono pronte ad affrontare
ruoli e repertorio di un certo impegno. Così facendo si impedisce loro di
crescere e maturare, imponendo ritmi scellerati che in molti casi ne
danneggiano la vocalità. Altro tasto dolente è quello delle riprese di
produzioni già collaudate. In quel caso si va in scena con pochissimi giorni di
prove, il che comporta un enorme dispendio di energia e concentrazione per gli
artisti con un risultato finale che non sempre è soddisfacente. Purtroppo non
possiamo far altro che adattarci sforzandoci di salvaguardare sempre i valori
che per noi sono i più importanti. La speranza per un cantante è quella di
essere sempre in salute e credere in quello che sta facendo.
Da albanese non residente quale lei è, il suo
legame con la madre patria oggi com’è? A parte l’emergenza corona virus riesce
a tornarci quando e quanto vuole?
Continuo ad avere un legame fortissimo con il
mio paese e, non appena ne ho l’occasione, torno sia per rivedere la mia
famiglia sia per trascorrere qualche vacanza al mare con gli amici.
Per finire, un progetto importante nel futuro
a cui tiene molto e un personaggio del passato a cui è legato e che sa di non
poter più affrontare a seguito della naturale evoluzione della voce.
Ph. Fadil Berisha
Comincio dalla seconda parte della domanda.
Sono molto legato ad un ruolo in particolare: Nemorino. L'ho sempre cantato con
grandissimo piacere e mi ha accompagnato fino ad oggi. L’ho visto crescere con
me anche se, man mano che la voce si irrobustiva, diventava sempre più
difficile realizzare certe nuances che invece sgorgavano con grande semplicità
sin da quando, a 22 anni, ho debuttato nell'Elisir d'Amore all’Opera di Vienna.
In compenso oggi riesco ad infondere nuovi colori al mio Nemorino, il che mi fa
ben sperare di poterlo mantenere ancora a lungo in repertorio. A malincuore
devo però ammettere che alcuni ruoli mozartiani non sono più nelle mie corde,
mentre personaggi come Idomeneo e Tito (che hanno altro peso vocale) continuerò
ad eseguirli ancora. Mi chiedeva di un ruolo che vorrei affrontare in futuro,
ebbene io ho un sogno probabilmente irrealizzabile perché appartenente al
repertorio spinto: Des Grieux in Manon Lescaut. Temo che, nonostante il grande
amore che ho sempre nutrito verso quest'opera, mi limiterò ad ascoltarla
nell'interpretazione dei grandi tenori del passato.
KAWS, COMPANION (EXPANDED), 2020. Courtesy of KAWS and Acute Art.
Earlier this month, the art world superstar Brian Donnelly, a.k.a.
KAWS, debuted a new set of his wildly popular “Companion” characters. But
unlike his eminently collectible, limited-edition vinyl figures, this new
endeavor consisted primarily of geolocated pixels.
The project, a collaboration between the artist and the digital art
platform Acute Art, featured 12 augmented-reality versions of KAWS’s
“Companions” floating above 11 cities across the globe, viewable only through
Acute Art’s app. Dubbed “EXPANDED HOLIDAY,” it was a digital expansion of
“KAWS:HOLIDAY,” a series of installations of large-scale inflatable sculptures
around the world. Alongside public “installations” of the digital figures, the
new project offers users the opportunity to acquire timed, subscription-based
editions for $7 per week or $30 for a month. The company had also planned to
release 25 limited-edition sculptures for permanent acquisition for $10,000
each. Donnelly ultimately decided to delay the release of these works in light
of the global COVID-19 pandemic. Birnbaum said the company hopes to move
forward with the permanent digital editions at a later date. In the meantime,
in light of the pandemic, the company has extended the collaboration with free
miniature (virtual) KAWS sculptures, which are available until April 15th.
KAWS, COMPANION (EXPANDED) in Paris, 2020. Courtesy of KAWS and
Acute Art.
The $10,000 price tag for a digital edition is a higher price point
than the average KAWS collectible. A Phillips auction of the artist’s work in
December saw most vinyl figurines selling for figures between $1,500 and
$5,000. But the digital editions are still relatively affordable in the context
of his larger market, which saw a new auction record of $14.7 million set last
year at Sotheby’s in Hong Kong.
The commercial aspects of the collaboration between KAWS and Acute
Art would seem novel in any context, pushing the possibilities for selling both
virtual- and augmented-reality art. In the midst of the deadly COVID-19
pandemic, with most of the art world going online, it seemed to offer a
sophisticated way to interact with art while remaining socially distanced.
When Acute Art was founded in 2017, the commercial viability of virtual-
and augmented-reality art had not been extensively explored. “VR is older, but
it was a super-specialist thing,” said Daniel Birnbaum, Acute Art’s artistic
director. “VR as something that people can use—where you can actually reach an
audience—is a relatively recent thing. It was already a little bit further
ahead in the architecture world, in certain kinds of entertainment, in the film
world, but very few artists have done anything with VR.”………………