martes, 31 de marzo de 2020

CON MEISNEWS FESTA DEL LIBRO EBRAICO IN OTTOBRE E VISITIAMO FERRARA EBRAICA ONLINE

Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah 

Via Piangipane, 81 - Ferrara

I. FESTA DEL LIBRO EBRAICO

Torna la Festa del Libro Ebraico, l’annuale appuntamento del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah dedicato alla letteratura italiana e internazionale con approfondimenti, presentazioni ed incontri. Il festival, giunto alla sua undicesima edizione, si terrà negli spazi del MEIS dal 6 all’8 ottobre ed è realizzato grazie al contributo della Regione Emilia-Romagna e al sostegno di Giulio Barbieri Outdoor Solutions, di Coferasta e di Fercam e ha il patrocinio del Comune di Ferrara, dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Comunità ebraica di Ferrara.

A fare da cornice agli eventi sarà la tradizionale capanna adornata da frutta di stagione, la Sukkàospitata per la prima volta nel giardino del MEIS. Ogni anno infatti le famiglie ebraiche la costruiscono in occasione della festa ebraica di Sukkot in ricordo del periodo vissuto nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto e per celebrare il raccolto.

 

Si inizia il 6 ottobre alle 18.00 con l’incontro “Il potere del segno”, una conversazione tra Christian Greco, Direttore del Museo Egizio di Torino, e Amedeo SpagnolettoDirettore del MEIS, sul mondo della scrittura e l'identità a partire dai caratteri dell’ebraico biblico e dei geroglifici egizi.

 

Mercoledì 7 ottobre alle ore 16.00 verrà presentato il volume “Archivio e camera oscura - Carteggio 1932-1940” (ed. Adelphi) che raccoglie le lettere tra il filosofo Walter Benjamin e il filosofo e teologo Gershom Scholem: a discuterne con il curatore Saverio Campanini, professore di lingua e letteratura ebraica presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Alma mater studiorum – Università di Bologna, saranno lo storico sociale delle idee David Bidussa e Shaul Bassi, professore all’Università Ca’ Foscari e direttore dell'International Center for the Humanities and Social Change di Ca' Foscari. Segue alle 18.00 la presentazione del catalogo “Oltre il ghetto. Dentro & Fuori” (Silvana Editoriale) pubblicato in occasione della nuova grande mostra del MEIS che verrà inaugurata nel marzo del 2021. Lo racconta Eike Schmidt, Direttore delle Gallerie degli Uffizi - uno dei prestigiosi musei che hanno prestato le loro opere per l’esposizione - assieme alle quattro curatrici Andreina Contessa, Simonetta Della Seta, Carlotta Ferrara degli Uberti e Sharon Reichel.

 

Giovedì 8 ottobre alle 16.00 il Presidente del MEIS Dario Disegni e l’avvocato ferrarese Marcello Sacerdoti presentano “I racconti di Matilde” di Ermanno Tedeschi (edito dall’Associazione Culturale Acribia): la vera storia di una piccola bambola che ha viaggiato il mondo dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938. Si conclude alle 18.00 con la presentazione del libro “Olocaustico” (ed. Giuntina) firmato dallo scrittore e regista Alberto Caviglia. L'autore dialogherà con Micol Temin, responsabile degli eventi per il Centro di Cultura Ebraica di Roma e Michelle Nahum Sembira, già collaboratrice del MIUR per progetti didattici sulla Shoah e impegnata nella valorizzazione della cultura ebraica.

 

Tutti gli eventi sono gratuiti, la prenotazione è obbligatoria. Per informazioni e prenotazioni: tel. 0532 1912039 e 342 5476621 (attivi martedì-giovedì 10-13 e 16-18 e venerdì-domenica 10.00-18.00), email: a meis@coopculture.it. In caso di pioggia gli eventi si terranno negli spazi interni del museo.

 

Gli eventi potranno essere seguiti in diretta sulla pagina Facebook del MEIS @MEISmuseum.


II. GLI EBREI E FERRARA

(foto di Marco Caselli Nirmal)


Gli ebrei e Ferrara, un rapporto millenario e indissolubilmente intrecciato.
Una storia conosciuta da tutto il mondo ebraico, che racconta momenti di incontro e integrazione alternati ad altri più bui.

Il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah ha voluto allestire la mostra "Ferrara ebraica" per spiegare perché il museo sia nato proprio in questa città e oggi, in tempi di Coronavirus, vuole dare a tutti la possibilità di visitarla e di conoscere almeno una parte della grande ricchezza del patrimonio ebraico della città estense.

Cliccando sul sito https://ferraraebraica.meis.museum chiunque potrà fare un salto virtuale nel tempo, visitare, conoscere, incontrare, approfondire alcune storie ebraiche ferraresi.

L'esposizione, organizzata pienamente dal MEIS, voluta dal Direttore Simonetta Della Seta, curata da Sharon Reichel e allestita da Giulia Gallerani, è un viaggio tra passato e presente che racconta una delle comunità ebraiche più antiche d'Italia, con una eredità culturale e artistica unica. Oltre a valorizzare la straordinaria fattura di oggetti cerimoniali e ricostruire l'ambiente sinagogale, "Ferrara ebraica" si interroga anche sul rapporto tra gli ebrei e la città, portando alla luce racconti affascinanti intrecciati con la Storia.

Il percorso è arricchito dal video introduttivo e dalle interviste agli ebrei ferraresi firmate da Ruggero Gabbai e dalle foto di Marco Caselli Nirmal.
Le musiche della tradizione ebraica ferrarese, incise appositamente per il MEIS, sono curate ed eseguite da Enrico Fink.

La mostra è stata resa possibile grazie alla collaborazione del Comune di Ferrara e della Comunità ebraica di Ferrara, che ha prestato al MEIS gran parte degli oggetti esposti e qui presentati ed è stata sostenuta da Holding Ferrara Servizi, con il patrocinio della Regione Emilia-Romagna e dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Il video introduttivo è realizzato in collaborazione con l'Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara con un contributo della Regione Emilia Romagna, legge Memoria del Novecento.

In un momento di incertezza come quello che stiamo vivendo, il MEIS vuole condividere almeno in via digitale alcuni dei valori che hanno permesso agli ebrei di continuare a costruire la loro vita anche in momenti difficili.

"Se io non sono per me, chi è per me? E se io sono solo per me stesso, cosa sono? E se non ora, quando?" (R. Hillel, Pirkei Avot I:14), dalle Massime dei Padri.

Con la speranza di riaprire presto le porte del museo, il MEIS non si ferma e continua ad essere un luogo di libertà, scambio di opinioni e condivisione di idee.

Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah - MEIS

FILM RÉVÈLE COMMENT LE MIME MARCEAU A SAUVÉ DES ENFANTS DES HORREURS NAZIES

PAR JORDAN HOFFMAN
Réalisé par le juif vénézuélien Jonathan Jakubowicz, il explore les jeunes années de Marcel Marceau, quand il s’est allié à son frère et à son cousin pour aider des orphelins juifs
NEW YORK — Quand je mentionne le nom de Marcel Marceau, à quoi pensez-vous donc ? A un type au visage peint en blanc, éphémère serveur de bistrot ? Ou à l’intérieur d’une boîte invisible ? Ou incarnant le seul rôle parlé dans « La dernière folie » de Mel Brooks ? Eh bien, à part avoir été le mime le plus célèbre du monde, il s’avère que ce grand artiste juif français a également été pas moins qu’un héros pendant la Seconde Guerre mondiale.


Un nouveau film appelé « Résistance » et réalisé par le juif vénézuélien Jonathan Jakubowicz explore les jeunes années de Marceau, pendant lesquelles le comédien en herbe s’est allié à son frère et à son cousin pour venir en aide à des orphelins juifs. C’est à ce moment-là qu’il aurait utilisé pour la première fois ses talents de clown, et ses capacités devaient être précieuses pour calmer les enfants alors qu’il leur faisait passer la frontière séparant la France et la Suisse.


Le film, disponible en streaming et sur demande en Amérique du nord depuis le 27 mars, amplifie très certainement ce qu’a été la réalité à des fins dramatiques. Je doute que Marceau ait autant rencontré en face à face « le boucher de Lyon », Klaus Barbie. Et il est impossible qu’il ait utilisé ses « pouvoirs de cirque » pour envoyer une boule de feu sur les gardes de la Gestapo en un seul souffle, permettant ainsi à des gens de s’évader d’un camion de la police. Mais l’histoire sous-jacente – et en particulier les passages de la frontière en Suisse – sont vraies.
J’ai eu la chance de m’entretenir, il y a quelques semaines, avec Jakubowicz – bien avant que le COVID-19 ne vienne bouleverser nos existences. Vous pourrez découvrir ci-dessous une retranscription révisée de notre conversation.
Je viens tout juste d’apprendre que « Résistance » va être projeté lors du festival du film de la mer Rouge inaugural en Arabie saoudite. C’est significatif parce que – je n’ai pas à vous le dire – les histoires sur les Juifs et la Shoah ne sont pas souvent mises en avant dans le monde arabe.

J’ai reçu un message très émouvant de la part du directeur du festival, le réalisateur saoudien Mahmoud Sabbagh. Il m’a parlé de l’utilité de l’art pour briser les barrières historiques entre les cultures. Je sais combien le négationnisme de la Shoah est fort dans certaines parties du monde arabe et il n’y a donc probablement aucune autre région de la planète qui ait davantage besoin d’entendre le message transmis par le film. Je ne pense pas qu’un film sur la Shoah ait été présenté dans le monde arabe – et ce n’est assurément pas le cas en Arabie saoudite.

Est-ce que vous irez à la Première ?

Je ne le sais pas encore.

(Nota bene: Comme on le dit en Yiddish, « Mann tracht, Gott lacht » – « l’homme prévoit, Dieu en rit » – . Le festival du film de la mer Rouge a été annulé depuis en raison de la pandémie de COVID-19.)


Je vais le confesser : C’est sûr, j’ai déjà entendu parler de Marcel Marceau ; j’ai même vu une vidéo ou deux de ce qu’il faisait. Mais j’ignorais totalement qu’il avait été un membre juif de la résistance française.

C’était aussi mon cas. Et c’est la raison pour laquelle je suis devenu dingue quand j’ai entendu cette histoire. J’avais lu un article à ce sujet dans Open Culture et cela m’avait fasciné. Des histoires de la Seconde Guerre mondiale, j’en avais entendu pendant toute ma vie – il y a des survivants de la Shoah des deux côtés de ma famille – mais je n’avais jamais eu le sentiment que je pourrais en faire un film. C’était trop proche de moi.

Mais il y a quelque chose, dans ce qu’a fait Marcel Marceau, qui a réellement retenu mon attention. Ça parle d’espoir, de la manière dont il a sauvé des enfants. J’ai commencé à faire des recherches puis j’ai rencontré Georges Loinger, leader de la résistance qui était à la tête des Scouts juifs et qui était le cousin germain de Marcel. Nous nous sommes rencontrés à Paris, il avait 106 ans. Et il m’a offert un aperçu de première main sur la manière dont s’étaient déroulées les opérations.


Marcel Marceau photographié à Paris, le 12 février 2003 (Crédit :AP Photo/Laurent Emmanuel)

Entendre une histoire racontée par un homme de 106 ans – cela m’a obsédé. Et j’ai été sidéré par le fait qu’aucun film n’ait été réalisé sur le sujet auparavant.

Malheureusement, Georges est mort à l’âge de 108 ans lorsque nous étions en post-production et il n’a donc jamais pu voir le film. Mais nous le montrerons à la famille.

Et je soupçonne qu’ils vont l’aimer.


Eh bien, Marcel ne s’était jamais considéré comme un héros – ce qu’il était très clairement. La médaille Wallenberg lui avait été décernée en 2001 et on peut voir son discours sur YouTube à cette occasion – c’est incroyable.



Il parle de sauver la vie de ces enfants, mais il dit qu’en côtoyant toutes les horreurs qu’il y avait à ce moment-là, c’était impossible de se considérer comme un héros. Cela ne lui a jamais traversé l’esprit. Il ne s’était jamais senti à l’aise à l’idée d’être un héros, mais il avait risqué sa vie. Dans son esprit, c’était ce que n’importe qui d’autre aurait pu faire. Mais nous savons, bien sûr, que ça n’a pas toujours été le cas.

Pensez-vous que Marcel Marceau a minimisé cette partie de sa biographie ?

Il en a parlé plus tard dans sa vie. Et il a dit qu’il avait réalisé que cet « art du silence » était le reflet du silence conservé par les survivants dans les camps. Il a dit, dans de nombreuses interviews, qu’il y avait un parallèle à faire ici.

Je pense qu’il avait tenté de dissimuler cet héroïsme affiché en temps de guerre parce qu’il voulait que l’art transmette un message d’unité, mais si vous regardez certaines de ses chorégraphies au sujet des soldats, alors vous y verrez l’expression de la compréhension de la souffrance. Il était un mime, sans utiliser le langage, qui tentait de transmettre un message de paix. Quand j’ai reçu cette invitation depuis l’Arabie saoudite, j’ai pensé que oui, c’était quelque chose du message de Marcel Marceau qui était en train de se réaliser.

J’ai vu votre précédent film, « Hands of Stone », qui raconte l’histoire du boxeur Roberto Durán et, au moins du point de vue de la réalisation, les deux hommes utilisent le mouvement comme forme d’expression. Que ce soit avec le mime ou, vous savez, en utilisant le punching-ball. Avez-vous trouvé des similarités en tournant ces séquences ?

Plus vous filmez, plus vous vous améliorez. Plus vous avez de raccourcis. Alors oui, nous avons approché les combats de « Hands of Stone » comme une danse – c’était mon approche artistique. Mon compositeur m’a montré que j’avais mis en place des modèles – même s’ils ne m’avaient pas sauté aux yeux de prime abord.
Le casting de ce film est essentiel. Et Jesse Eisenberg est le choix parfait.

J’ai écrit le film en pensant à lui. Sa mère était clown professionnel – croyez-le ou non. Il a donc grandi en la voyant peindre son visage pour aller travailler. Et il a perdu une partie de sa famille pendant la Shoah. Il a également une ressemblance physique avec Marcel mais, également, Jesse conserve une sorte d’arrogance artistique – comme Marcel – au moins au début du film.

Il a lu le script très rapidement et il a fallu peu de temps pour le convaincre de participer au film. Et cela a été une collaboration merveilleuse. Il avait de nombreuses idées formidables. Il a aidé à donner sa forme au film. C’est un génie créatif ; c’est un privilège de travailler avec une personnalité comme celle-là.

Je ne pense pas qu’il réalise qu’il est une star du cinéma. C’est un intellectuel, c’est un lecteur et un père formidable. Il y avait de nombreux enfants sur le tournage – les miens, ceux des autres membres de l’équipe – et tous couraient partout, ce qui était très particulier parce que le film parlait du secours apporté aux enfants pendant la guerre. Tourner un film sur la Shoah en Allemagne, comme ça, ça a été très spécial.

Oh, vous n’avez pas tourné en France ?

En Allemagne pour les intérieurs et en République tchèque pour les extérieurs. On avait regardé des sites en France, mais ils étaient trop modernisés. Les endroits qui n’avaient pas changé étaient bondés de touristes. Alors j’ai parlé avec des amis réalisateurs, en France, et il m’ont dit : « Va à Prague – c’est là où on va tous ».

Se trouver en Europe et réaliser un film sur l’antisémitisme a dû être intéressant à l’heure actuelle au vu de l’augmentation des incidents antisémites qui a été enregistrée dans la région.

C’est indéniable. L’antisémitisme est de retour. C’est, en partie, ce qui m’a motivé à faire le film. Mais cela nous a aussi motivé lorsqu’on tournait.

Si vous vous rappelez de la scène sous le pont – pas de Spoiler, mais vous devez vous souvenir que c’est une scène remplie d’émotion, qui succède à un incident terrible – elle a été tournée précisément au lendemain du massacre de la synagogue Tree of Life de Pittsburgh [le 27 octobre 2018]. Et nous nous trouvions alors à Nuremberg. Que Jesse et moi, nous nous soyons trouvés à Nuremberg, en train de tourner un film sur le nazisme, vingt-quatre heures après que des Juifs ont été tués dans une synagogue aux Etats-Unis… Je ne trouve pas les mots pour décrire ce qu’a été cette journée.

Il y avait ce sentiment de se dire qu’une fois encore, ça recommençait – avec ce sentiment, également, que nous assumions notre part du travail.

Pendant que nous étions en Allemagne, malheureusement, nous avons eu certaines interactions avec des néo-nazis. Il y avait eu une manifestation à Chemnitz lorsque nous étions là-bas. Cette ville était à environ 90 kilomètres de là où nous nous trouvions. Il y avait d’ailleurs eu un état d’urgence face aux nazis qui avait été mis en place à Dresden alors que nous étions là-bas.


Ed Harris dans le rôle de George S. Patton dans ‘Resistance.’ (Autorisation : IFC Films)

Un jour, nous nous trouvions dans une piscine municipale et un néo-nazi était présent. Il est arrivé au bord du bassin et il arborait sur tout son dos un tatouage avec le mot « Aryen ». Et il y avait environ 100 Allemands autour de nous, et personne n’a rien dit. Tout le monde a détourné le regard, personne ne voulait avoir des problèmes.

Le pantomime français Marcel Marceau sur scène à Berlin, le 2 janvier 1967 (Crédit : AP Photo/Edwin Reichert)

Vous le faites remarquer à vos amis Allemands et ils vous répondent : « Eh bien, c’est ça, l’Allemagne. Que faire ? »

Je veux dire, on a travaillé avec de nombreux Allemands formidables, des libéraux à l’esprit ouvert. Mais, en même temps, il y a quelque chose de sous-jacent qui s’exprime là-bas et particulièrement dans l’est.

Il y a eu une fusillade dans un bar à narguilé récemment et, bien sûr, il y a eu ce qui est arrivé dans une synagogue de Halle, le jour de Yom Kippour. J’ai été choqué mais pas tant que ça.

Je pense que pour de nombreux Allemands, c’est une question compliquée. Le passé est si horrible et de tels efforts ont été livrés pour en venir à bout. Il est impossible pour eux de se dire que c’est réellement revenu.

Je sais que vous êtes originaire du Venezuela – même si vous vivez, aujourd’hui, aux Etats-Unis – est-ce un problème là-bas également ?

Eh bien, j’ai quitté le Venezuela parce que Hugo Chavez n’avait pas aimé mon premier film et que la chaîne publique officielle ne s’est pas contentée de m’attaquer, elle l’a fait en utilisant des propos antisémites. Elle a dit que le film relevait d’un complot sioniste contre Chavez et elle a menacé la communauté juive qui m’avait « laissé » réaliser le film. Le film n’avait pourtant rien à voir avec les Juifs, Israël ou quoi que ce soit d’autre – et bien entendu, rien à voir non plus avec Chavez. C’était un film dont le sujet était un enlèvement.

Mais il comprenait un personnage homosexuel, un soldat, et Chavez est un homophobe qui a perçu cela comme un délit contre ses forces armées. C’était effrayant parce que le Venezuela, dans toute son histoire, a accueilli des Juifs.

Quand ma famille et d’autres sont arrivés là-bas, pendant la guerre, ils ont tous vécu en totale liberté. Mais Chavez a marqué le tournant. Ma grand-mère, survivante de la Shoah, était encore en vie à l’époque et ça avait été très difficile pour elle de voir ce changement. Ça a été difficile pour moi aussi – j’étais né et j’avais grandi là-bas – et j’ai eu le sentiment qu’il fallait que je parte parce que j’étais Juif, à peu près de la même manière que mes parents et mes grands-parents avaient quitté l’Europe parce qu’ils étaient juifs.

Conservez-vous l’espoir que le Venezuela redevienne ce qu’il était ?

Des efforts sont livrés dans ce sens mais c’est difficile. Nicolás Maduro a la mainmise sur l’armée. Ce n’est pas une situation qui pourra être résolue de l’intérieur et personne ne veut y aller. J’ai écrit un roman là-dessus. Et je reste en contact avec des gens qui tentent de libérer les Vénézuéliens.

C’est compliqué, avec des intérêts étrangers, du pétrole. Le pays n’appartient plus aux Vénézuéliens. Il y a eu récemment un scandale, le Venezuela a fait imprimer 11 000 passeports pour des Syriens. Un grand nombre d’entre eux sont liés à des activités terroristes. Le pays est devenu un pôle du crime.

J’ai lu votre roman, « The Adventures of Juan Planchard », qu’il faut lire pour comprendre l’Amérique du sud aujourd’hui. Y a-t-il une chance qu’il devienne un film ?

Non, mais peut-être une série. C’est trop vaste pour un film. Mais en tout cas, le roman est en cours d’adaptation pour devenir une pièce de théâtre. Il est adapté par [l’auteur juif vénézuélien] Moisés Kaufman, qui s’est vu remettre la médaille nationale des Arts et des sciences humaines par [l’ex-président américain Barack] Obama – c’était la première fois qu’elle est décernée à un Vénézuélien. Je ne le pensais pas quand je l’écrivais, à cette adaptation, mais les choses continuent à empirer. En particulier parce que maintenant, d’autres pays s’intéressent au Venezuela. On a été ignorés pendant 22 ans, mais maintenant, on s’intéresse à nous.

J’ai vu tant de films sur la Shoah ! Trop, franchement. Mais dans votre film, il y a une scène qui m’a giflé au visage. Marcel est en train de parler avec d’autres membres de la résistance qui ne sont pas Juifs. Ils sont antinazis, c’est sûr, mais il y a une déconnexion sur la nature de l’antisémitisme. Ce sont des gens qui se trouvent clairement du côté des Juifs mais ils ne comprennent pas ce qu’est l’antisémitisme. Peut-être d’ailleurs qu’ils se moquent de réellement le comprendre.

L’antisémitisme est unique. Ce n’est pas le racisme ou l’homophobie. On le trouve à gauche, à droite et au centre et dans des cultures différentes. J’ai eu le sentiment que c’était important d’entendre le point de vue d’une intellectuelle française de la résistance, qui a son point de vue sur l’origine de l’antisémitisme. Elle pense que cette origine est métaphorique, que les Juifs qui se sont libérés de l’esclavage en Egypte sont devenus un symbole de l’émancipation et qu’ils incarnent donc une menace pour les dictateurs. Ce type de chose à laquelle aucun Juif ne penserait jamais !

Je suis content que vous ayez aimé ça. Ça a été, en fait, l’un des moments les plus difficiles à faire entrer dans le film.

https://fr.timesofisrael.com/un-film-revele-comment-le-mime-marceau-a-sauve-des-enfants-des-horreurs-nazies/?utm_source=A+La+Une&utm_campaign=a-la-une-2020-03-30&utm_medium=email

8/9 ENERO 2021: LA NEVADA EN ROZAS DE PUERTO REAL: CASI 50 CM EN LA DACHA. AISLADOS HASTA NUEVO AVISO Y SIGUE NEVANDO...


Y este país o la región no tiene la organización de Alemania o Estados Unidos para catástrofes...

NOW ANSWERING ALL YOUR BURNING QUESTIONS ABOUT THE CALL ME BY YOUR NAME SEQUEL, FIND ME


Aciman tried for years to write a sequel to 'Call Me by Your Name' but struggled to find a way in; a chance encounter led to a breakthrough

BY RICH JUZWIAK OCTOBER 25, 2019


Twelve years after the release of André Aciman’s modern queer classic Call Me By Your Name, the author has done what once seemed impossible to him: he’s written a follow-up. Readers have long wondered what happens to Elio and Oliver after the summer they fall in love in the Italian countryside — particularly since the 2017 film adaptation starring Timothée Chalamet and Armie Hammer turned the story into a phenomenon — and Aciman is finally ready to provide answers.

But Aciman says that Find Me, coming Oct. 29, is not an “obvious sequel.” In an exclusive interview with TIME, the author explains why he chose to enter the story not through Elio or Oliver but instead through Elio’s father Samuel. Find Me does not simply continue where Call Me By Your Name left off — the new book’s dialogue-heavy vignettes fill in gaps left in the final chapter of the original, which flashed forward into brief scenes of the 20 years after Elio and Oliver’s intimate summer. A book that muses on big themes of love, fate and the effects of time, Find Me provides a lot to discover between the lines. Aciman answered all our biggest questions about the Call Me By Your Name sequel.
Why did Aciman finally decide to write a sequel?
It had something to do with Aciman finally writing a follow-up that satisfied him after years of trying, and something to do with his meeting a stranger on a train in 2016. A woman asked him to watch her dog while she stepped away, and he found himself crafting a scene around her. That scene became the opening of Find Me, with Samuel finding himself drawn to a woman half his age on a train to visit Elio in Rome.
But mostly, Aciman reinvested because Elio and Oliver never left him. “I love the characters,” he tells TIME. “It was wonderful to spend time with them when they were younger and it’s still wonderful to be with them again and to find [years later] they really haven’t gotten much older.”

Elio was the narrator of the first book; is Find Me also told from his point of view?
In some sections, yes. The book is split into four chapters, the first two taking up the lion’s share of pages. Elio’s longer section is the second; his father Samuel handles the first (titled “Tempo”). Samuel provided an emotional crescendo in Call Me By Your Name (as well as the film adaption) with his monologue expressing total acceptance of his son’s love for another man. Aciman explains that there were certain thematic beats he wanted to hit before handing the mic to Elio.
“I needed to get a lot of things set up, particularly the discussion about the fact that we are not in sync with either time or life itself,” he says. The book starts 10 years after the events of the first novel, with the conversation between a now-divorced Samuel and Miranda, the woman on the train. Their discussion chugs along at a speed to match the locomotive, and it becomes clearer and clearer that romance is brewing.
Chapter Two (“Cadenza”) presents the age dynamic in reverse, as Elio tells of his infatuation in France with a man at least twice his age named Michel. Chapter Three (“Capriccio”) touches base with Oliver in New York, and Elio returns in the book’s closing chapter, “Da Capo.”

Wait, wasn’t Samuel still married 10 years after Elio and Oliver’s summer?
Yes, Call Me By Your Name superfans might recall that when Oliver returns to the house he stayed in that magical summer 11 years later, there is no indication that Elio’s parents have split up.

“It happens,” Aciman says of the narrative discrepancy. “You just don’t do the math — you go with what you think.” Whatever Samuel was in Call Me By Your Name, he is indeed single when we meet him again in Find Me.


Let's Talk About FIND ME... (Call Me By Your Name #2)
What happens with Oliver in Find Me?
Aciman has previously talked about Oliver being hard for him to access, telling Vulture, “I don’t know who he is. I’ve never been in his head.” But he shifts easily into Oliver’s perspective for the first time in the sequel. “He got older,” Aciman says. When Find Me catches up with Oliver, after a few time shifts, he’s around 40 years old. “He’s the kind of guy who says, ‘I used to be able to do this. What happened to me?’” Aciman says. “He’s basically realizing he’s no longer the prime candidate in other people’s lives. Other people have their own lives, their own partners, and they’re not going to give them up for him.” Aciman describes Oliver as facing questions about the life he has lived and how he thinks about his own character. “When someone has some kind of internal hurdle,” the author says, “then I can understand them.”

Aciman is big on intergenerational romance, isn’t he?
Indeed, at least in this literary universe. The age differences between lovers in Find Me almost feel like Aciman is doubling down in response to the (relatively minimal) criticism Call Me By Your Name received for portraying a love affair between a 17-year-old and a 24-year-old. That said, everyone in Find Me is grown up — just some more than others.
“For an older person, a person who’s significantly younger is always filled with energy, with promise,” Aciman says. Miranda is in her 30s, while Samuel is in his late 50s or early 60s, and Aciman sees them each providing something the other needs. “She brings a degree of energy that he doesn’t have,” he says. “On the other hand, he brings a sense of distance and equanimity and reason and wisdom.”
While Aciman says he is sensitive to the criticism of the first book, he doesn’t necessarily agree with it. “That’s the novel that came into my head and that’s how I wrote it,” he says. “It was also a very, very, very consensual relationship.”

Why are the chapter titles in Find Me musical terms?
Aciman is a deep admirer of classical music. He tells TIME he wanted to use musical terms “Tempo,” “Cadenza,” “Capriccio” and “Da Capo” to underline the theme of music throughout the novel. Elio has grown up to be an accomplished pianist and the owner of an encyclopedic knowledge of the art form.

“I wanted to say that classical music is a way of partitioning the lives of these people,” he says. His characters not only love classical music, but also have the cosmopolitan sophistication and a musical way of speaking that evokes it. “These people have lives that could be, in theory, seen from the vantage point of classical music. It gives a certain coherence to everything about them.”

Will the Call Me By Your Name sequel be made into a film?
Fans are eager for a second film — and Chalamet himself has said he and Hammer are “1000% in.” Luca Guadagnino, the director of the Call Me By Your Name film, has spoken about writing a sequel that prominently features the AIDS crisis. The filmmaker tells TIME that he would like to meet with Aciman, who collaborated with him on the original film, to discuss combining their visions.

Didn’t Elio and Oliver part ways for good at the first book’s conclusion? Are we being set up for more heartbreak?
Aciman has a coy answer for this most burning of questions about the Call Me By Your Name sequel. “At the end of Call Me By Your Name, everybody assumes that they’re separating,” Aciman says. “I didn’t say that. I said this is what might happen. I might take him to the door of the car and say goodbye to him.” Aciman reminds us that these lines are all in Elio’s head, so nothing is definite.

Find Me suggests in all manner of ways that good things come to those who wait.
https://time.com/5710568/find-me-call-me-by-your-name-sequel/

CONVERSANDO CON SAIMIR PIRGU DI CATERINA DE SIMONE




Ph. Fadil Berisha
Solo poche settimane sono trascorse dalla splendida edizione dell'Eugenio Onegin in scena al Teatro dell'Opera di Roma e, come per tutti, anche la vita di Saimir Pirgu è cambiata. La sua squisita musicalità e la bellezza del fraseggio possono risuonare oggi solo fra le pareti della sua casa. La sensibilità dell'artista traspare in quel che dice, schiettamente, mentre parla di ruoli futuri e passati e di come la quotidianità, la routine e l'agenda lavorativa siano state sconvolte dalle restrizioni necessarie alla lotta contro il nemico silente eppur veloce che minaccia il mondo intero.

Amneris vagante riprende il discorso proprio da dove si era interrotto, da Lenskij, ponte ideale tra passato, presente e futuro ma anche porta che introduce al mondo musicale (e non) di Saimir Pirgu.

Ripensando al suo entusiasmante debutto nel ruolo di Lenskij al Teatro dell’Opera di Roma com’è stata la sua marcia di avvicinamento al personaggio e per quanto tempo lo ha studiato? Pensa di riprenderlo?

Lenskij è uno di quei bellissimi ruoli che un tenore spera sempre di cantare. Devo ringraziare il Maestro James Conlon che ha avuto l’idea di propormi questo ruolo e che mi ha voluto fortemente, in quanto convintissimo che avrei potuto cantarlo molto bene. Aprendo lo spartito ho cominciato dall’aria e da lì ho iniziato ad immergermi nel mondo di Tchaikovsky. Sono andato alla ricerca dei momenti cruciali dell’opera così che, man mano che andavo avanti nello studio, mi convincevo che il Maestro aveva avuto ragione a volermi scritturare per la produzione romana. Nella preparazione ho poi avuto un valido appoggio dai vocal coaches del Met che mi hanno aiutato a comprendere meglio il personaggio. Mi sono concentrato sulla storia, sul contesto storico, sul romanzo di Puškin e infine sono passato ad ascolti del passato finché non ho trovato il "mio" Lenskij, ma continuando sempre il lavoro di labor limae. A debutto avvenuto e a distanza di qualche settimana dall'ultima recita romana, mi sento di dire che è uno dei ruoli più belli che abbia mai cantato e spero di riproporlo presto. Ovvio che l’entusiasmo di pubblico e critica mi hanno reso felice e mi auguro di riprendere presto il personaggio .

Lenskij che ruolo occupa all'interno della sua carriera?Lo vede come una sorta di punto di svolta verso un repertorio più spinto?

In questo momento lo sento pienamente in linea con il fisiologico cambiamento vocale. Il naturale sviluppo della voce, dal mio punto di vista, va costantemente assecondato e deve procedere con gradualità. Motivo in più per essere contento che il ruolo sia arrivato al momento giusto sia per quanto riguarda la mia maturità artistica chequella vocale.

Questo momento di grave incertezza dovuto alla pandemia di corona virus sta causando la sospensione dell’attività teatrale in Europa e nel mondo intero. La vede come un’opportunità per ripensare alla sua carriera e al suo futuro o come una costrizione? Attualmente lei dove si trova?

La mia generazione e quella precedente non sono abituate a situazioni del genere, ma da albanese ho conosciuto momenti difficili, in primis la crisi del periodo post comunista. Questa nuova emergenza è arrivata però in modo inaspettato, e avendo ormai dimenticato cosa sia la guerra, ci troviamo a doverne combattere una, sofisticata e tecnologica, che non vediamo, annusiamo e percepiamo. Nonostante tutto sono fiducioso e fermamente convinto che supereremo anche questo periodo di difficoltà. Al momento mi trovo in Italia e come tutti sono chiuso in casa che finalmente mi sto godendo. Sono in giro per il mondo per più di 300 giorni all’anno, quindi sto approfittando di questa situazione per pensare, riflettere, studiare, leggere, guardare e ascoltare. Il mio modo di prepararmi a tornare in teatro più forte di prima è proprio questo.

A questo proposito avere molto più tempo del solito da dedicare allo studio come influisce sui suoi ritmi quotidiani? E come vive l'assenza dal palcoscenico?

Ovviamente non posso cantare giornate intere sia perchè l’organo fonatorio è vivo e non bisogna abusarne, sia perché non è il caso di disturbare il vicinato che già mi sopporta abbastanza. Canto il giusto e ritengo che anche studiare stando in silenzio sia estremamente proficuo. Di certo questa situazione è per me del tutto anomala e un po’ forzata; il tempo, una tra le cose più preziose fino a pochi giorni fa, è d’improvviso diventato tantissimo, molti sono i momenti di ripiegamento ed inevitabili quelli di vuoto in cui sopraggiunge la malinconia. Sin da bambino ho deciso che la musica sarebbe stata la mia vita e così è stato. Quindi non sono preparato a fare altro e non è facile star lontano dal palcoscenico dopo averlo vissuto con intensità per 18 anni. E’ un periodo difficile e mi auguro che questo male possa essere sconfitto quanto prima e che la normalità, la quotidianità che tanto rimpiangiamo possa essere al più presto restituita a tutti.
Teatro dell'Opera di Roma - Eugenio Onegin - Ph. Yasuko Kageyama
Proprio il maggiore tempo a disposizione le consente di studiare approfonditamente nuovi ruoli. Quali sono? Quali programmi futuri a breve o medio termine ha?

In realtà stavo preparando l’Amleto di Faccio che sarebbe dovuto andare in scena a fine mese a Verona. Con l’ondata di restrizioni e la chiusura dei teatri il progetto è stato abbandonato ed è un peccato in quanto mi stavo appassionando a questa scrittura musicale completamente nuova per me. Attualmente si sta però tentando di ricalendarizzarla. Il prossimo anno mi vedrà impegnato in due nuovi importanti debutti: il primo è con I racconti di Hoffmann che canterò in una nuova produzione all’Opernhaus di Zurigo. Questo mi consentirà di continuare l'esplorazione del repertorio francese che ho già affrontato nel recente passato cantando nel Werther, in Roméo et Juliette e in Carmen. Hoffmann è senza dubbio un ruolo complesso, si avvicina però molto a quello di Faust che ho affrontato sia nell’opera di Gounod che ne La Damnation di Berlioz, quindi penso di riuscire a padroneggiarlo. Altro debutto a cui tengo avverrà alla Deutsche Oper di Berlino e si tratterà di Ruggero nella Rondine. Per molti anni ho avuto timore di accostarmici pur essendo già entrato nell'universo pucciniano con Bohème e Butterfly. Ritengo che Puccini debba essere affrontato sempre con cautela e lo stesso vale per il Verismo. Senza dubbio è musica ben scritta e bellissima, ma non bisogna lasciarsi travolgere dal melodismo, altrimenti si rischia di eseguirla con poca cura, banalizzandola. Fondamentale è possedere una tecnica molto solida prima di affrontare Puccini, quindi fare molta attenzione a non forzare mai poichè si tratta di una scrittura poderosa e la tessitura è solitamente impegnativa ed insidiosa.

A proposito della costruzione di una carriera come effettua la scelta fra i numerosi progetti che le offrono? Qual è l'elemento a cui dà più valore nelle proposte che riceve?

In tutta la mia carriera ho sempre scelto la qualità. Misurarmi con colleghi di valore ed avere un ottimo direttore insieme ad un regista che conosce il mestiere sono tre componenti imprescindibili che devono armonizzarsi. Se uno di questi elementi manca o è in sott'ordine non ci può essere un successo pieno. D'altronde confrontarsi con individualità di ottimo livello aiuta molto a crescere. Personalmente trovo molto stimolanti le nuove produzioni perché sì dà più importanza al momento creativo, insieme si dà vita a ciò che prima era solo su carta o nella mente del singolo artista. Un lungo periodo di prove ti dà più tempo per metabolizzare e perfezionare l'interpretazione. Non dimentichiamoci che si tratta pur sempre di "teatro musicale".

Ripensando agli inizi della carriera la sua parabola artistica è iniziata correttamente con Mozart e il belcanto per arrivare oggi al repertorio prettamente lirico. Alla luce della sua esperienza quasi ventennale cosa vuol dire per lei passare dal repertorio italiano a quello francese e organizzare l'agenda degli impegni futuri in base alle scelte di repertorio?

Sono orgoglioso di avere l’albanese come lingua madre in quanto è una lingua antichissima, fra le più antiche d’Europa. Tra l'altro è ricca di suoni e le tante lettere dell’alfabeto mi aiutano molto a riconoscere e riprodurre i suoni di molti idiomi consentendomi di affrontare ruoli operistici in lingue diverse. La facilità linguistica, tuttavia, non va completamente di pari passo con quella tecnica. Cerco di non mescolare troppo i diversi repertori e comunque mi prendo sempre del tempo per riorganizzare le idee e la tecnica nel passaggio da un repertorio all’altro. Sebben ultimamente canti maggiormente in italiano ed in francese, la mia matrice operistica rimane sempre l’italiano che cerco di applicare anche alla lingua francese.

Perchè il repertorio tedesco è così ostico per chi, come dice lei, ha una matrice operistica che affonda le radici nell'opera italiana? A suo parere qual è la difficoltà maggiore per un cantante non tedesco/nordeuropeo nell'affrontare quel repertorio?

La lingua principalmente, che è molto diversa da quella latina, e la giusta maturità vocale per ogni singolo ruolo di questa "Fach". Dopodichè sono del parere che un buon cantante possa cantare bene tutto, proprio come hanno fatto molti grandi del passato. Io personalmente ritengo anche che sia necessaria molta cautela nel cimentarsi con questo repertorio che richiede, come ho già affermato, un’ulteriore maturità vocale. Probabilmente però inserirò qualche ruolo tedesco nel prossimo decennio.
Wiener Staatsoper - Elisir d'amore- Michael Poehn
Lei ha raggiunto ormai grande solidità e maturità vocale grazie ad un registro centrale che si è molto irrobustito negli anni e ad un legato impeccabile. A questo punto prevede di affrontare in futuro ruoli più pesanti? Quali?

La mia formazione lirica è italiana e la scuola italiana ci insegna che cantando bene e al momento giusto è possibile cantare tutto. Lauri Volpi, Gigli, Raimondi, Corelli, Di Stefano hanno iniziato con il repertorio leggero o lirico e si sono spostati poi verso un repertorio più drammatico. Tutto dipende dalla salute del cantante, dalla salute della voce e da come la si cura specialmente dal punto di vista tecnico. Ho iniziato un ventennio fa con Elisir d’amore e Don Giovanni e continuerò ad essere aperto ad ogni sviluppo senza paura, continuando ad ascoltare con coscienza l’andamento filsiologico della mia voce e a sperimentare i nuovi ruoli con le dovute cautele.

Proprio la sua estrema integrità interpretativa e la sua affidabilità la mettono oggi in una posizione di forza nei confronti dei grandi teatri che la scritturano. Ritiene di avere una maggiore capacità propositiva nel suggerire ai direttori del cast ruoli che le piacciono e che desidera affrontare?

Dipende, alcune volte sì ed altre no, dipende dal casting director o dal sovraintendente, da quanto loro amino e si fidino dell’artista e soprattutto anche dalla loro competenza. Ci sono teatri in cui spesso e volentieri mi è stato chiesto un suggerimento, in altri invece non si lascia spazio ai desideri degli artisti. Il mondo è cambiato ed è ormai chiaro come anche il livello delle competenze si sia abbassato. Nel nostro mondo assistiamo spesso a scambi di ruolo e posizioni al vertice, il che porta ad azioni e scelte ambigue all'interno dei teatri che arrivano anche a negare ciò che è evidente. Ciononostante bisogna sempre andare avanti e, personalmente, rimango sempre dell’idea che il talento sia il miglior biglietto da visita.

Alla luce di queste considerazioni ritiene di essere padrone della sua vita artistica? Le è mai capitato di sentirsi invece un po’ prigioniero del sistema che oggi impone ai cantanti di fama come lei ritmi incalzanti?

Sono padrone delle mie scelte artistiche, purtroppo meno della mia vita artistica. Rispetto al passato si sono verificati cambiamenti sostanziali. Per iniziare le distanze che si sono accorciate enormemente, e poi l'abolizione di una virtuale "classifica" dei teatri. Si canta ovunque e non esiste più il cantante “di un teatro”, così il singolo ha sempre meno potere contrattuale nonostante possieda indubbie capacità artistiche e attrattiva nei confronti del pubblico. La globalizzazione ha aperto le frontiere e i cantanti bravi, seppur pochi, sono ovunque. Spesso, però, si investe sulle giovani leve che magari non sono pronte ad affrontare ruoli e repertorio di un certo impegno. Così facendo si impedisce loro di crescere e maturare, imponendo ritmi scellerati che in molti casi ne danneggiano la vocalità. Altro tasto dolente è quello delle riprese di produzioni già collaudate. In quel caso si va in scena con pochissimi giorni di prove, il che comporta un enorme dispendio di energia e concentrazione per gli artisti con un risultato finale che non sempre è soddisfacente. Purtroppo non possiamo far altro che adattarci sforzandoci di salvaguardare sempre i valori che per noi sono i più importanti. La speranza per un cantante è quella di essere sempre in salute e credere in quello che sta facendo.

Da albanese non residente quale lei è, il suo legame con la madre patria oggi com’è? A parte l’emergenza corona virus riesce a tornarci quando e quanto vuole?

Continuo ad avere un legame fortissimo con il mio paese e, non appena ne ho l’occasione, torno sia per rivedere la mia famiglia sia per trascorrere qualche vacanza al mare con gli amici.

Per finire, un progetto importante nel futuro a cui tiene molto e un personaggio del passato a cui è legato e che sa di non poter più affrontare a seguito della naturale evoluzione della voce.


Ph. Fadil Berisha

Comincio dalla seconda parte della domanda. Sono molto legato ad un ruolo in particolare: Nemorino. L'ho sempre cantato con grandissimo piacere e mi ha accompagnato fino ad oggi. L’ho visto crescere con me anche se, man mano che la voce si irrobustiva, diventava sempre più difficile realizzare certe nuances che invece sgorgavano con grande semplicità sin da quando, a 22 anni, ho debuttato nell'Elisir d'Amore all’Opera di Vienna. In compenso oggi riesco ad infondere nuovi colori al mio Nemorino, il che mi fa ben sperare di poterlo mantenere ancora a lungo in repertorio. A malincuore devo però ammettere che alcuni ruoli mozartiani non sono più nelle mie corde, mentre personaggi come Idomeneo e Tito (che hanno altro peso vocale) continuerò ad eseguirli ancora. Mi chiedeva di un ruolo che vorrei affrontare in futuro, ebbene io ho un sogno probabilmente irrealizzabile perché appartenente al repertorio spinto: Des Grieux in Manon Lescaut. Temo che, nonostante il grande amore che ho sempre nutrito verso quest'opera, mi limiterò ad ascoltarla nell'interpretazione dei grandi tenori del passato.

https://amnerisvagante.wordpress.com/2020/03/27/conversando-con-saimir-pirgu/

VIRTUAL KAWS EXHIBITION TESTS THE MARKET FOR AUGMENTED REALITY ART


Justin Kamp


KAWS, COMPANION (EXPANDED), 2020. Courtesy of KAWS and Acute Art.

Earlier this month, the art world superstar Brian Donnelly, a.k.a. KAWS, debuted a new set of his wildly popular “Companion” characters. But unlike his eminently collectible, limited-edition vinyl figures, this new endeavor consisted primarily of geolocated pixels.

The project, a collaboration between the artist and the digital art platform Acute Art, featured 12 augmented-reality versions of KAWS’s “Companions” floating above 11 cities across the globe, viewable only through Acute Art’s app. Dubbed “EXPANDED HOLIDAY,” it was a digital expansion of “KAWS:HOLIDAY,” a series of installations of large-scale inflatable sculptures around the world. Alongside public “installations” of the digital figures, the new project offers users the opportunity to acquire timed, subscription-based editions for $7 per week or $30 for a month. The company had also planned to release 25 limited-edition sculptures for permanent acquisition for $10,000 each. Donnelly ultimately decided to delay the release of these works in light of the global COVID-19 pandemic. Birnbaum said the company hopes to move forward with the permanent digital editions at a later date. In the meantime, in light of the pandemic, the company has extended the collaboration with free miniature (virtual) KAWS sculptures, which are available until April 15th.


KAWS, COMPANION (EXPANDED) in Paris, 2020. Courtesy of KAWS and Acute Art.

The $10,000 price tag for a digital edition is a higher price point than the average KAWS collectible. A Phillips auction of the artist’s work in December saw most vinyl figurines selling for figures between $1,500 and $5,000. But the digital editions are still relatively affordable in the context of his larger market, which saw a new auction record of $14.7 million set last year at Sotheby’s in Hong Kong.
The commercial aspects of the collaboration between KAWS and Acute Art would seem novel in any context, pushing the possibilities for selling both virtual- and augmented-reality art. In the midst of the deadly COVID-19 pandemic, with most of the art world going online, it seemed to offer a sophisticated way to interact with art while remaining socially distanced.

When Acute Art was founded in 2017, the commercial viability of virtual- and augmented-reality art had not been extensively explored. “VR is older, but it was a super-specialist thing,” said Daniel Birnbaum, Acute Art’s artistic director. “VR as something that people can use—where you can actually reach an audience—is a relatively recent thing. It was already a little bit further ahead in the architecture world, in certain kinds of entertainment, in the film world, but very few artists have done anything with VR.”………………

https://www.artsy.net/article/artsy-editorial-virtual-kaws-exhibition-tests-market-augmented-reality-art?utm_medium=email&utm_source=19878567-newsletter-editorial-daily-03-30-20&utm_campaign=editorial&utm_content=st-V