Manet. Ritorno a Venezia è il titolo della mostra che la Fondazione Musei Civici di Venezia
ospiterà dal 24 aprile al 18 agosto 2013 nelle monumentali sale di Palazzo Ducale:
un’esposizione di un’ottantina circa tra dipinti,
disegni e incisioni, progettata con la collaborazione speciale del
Musée D’Orsay di Parigi, l’istituzione che conserva il maggior
numero di capolavori di questo straordinario pittore.
La mostra nasce
dalla necessità di un approfondimento critico sui
modelli culturali che ispirarono il giovane Manet negli
anni del suo precoce avvio alla pittura. Questi modelli, fino ad oggi quasi
esclusivamente riferiti all’influenza della pittura spagnola sulla sua arte,
furono diversamente assai vicini alla pittura italiana del Rinascimento, come
dimostrerà l’esposizione veneziana nella quale il pubblico potrà ammirare,
accanto ai suoi capolavori, alcune eccezionali opere ispirate ai grandi
tableaux della pittura veneziana cinquecentesca, da Tiziano a
Tintoretto a Lotto in particolare. Come è ben noto, gli studi su Manet, il
grande precursore dell’Impressionismo, si sono per lungo tempo concentrati
sull’idea di una sua diretta discendenza dall’opera pittorica di Velázquez e di
Goya, vedendo proprio nell’ispanismo non solo l’unica fonte della sua
modernità, ma anche la ragione e lo stimolo per il suo rifuggire dai “ritorni”
alla tradizione accademica. Un approccio per così dire progressista, che non
tiene però conto della passione di Manet per l’arte italiana della Rinascenza,
che fu una fascinazione e un legame davvero intenso, di cui darà piena
dimostrazione l’esposizione veneziana, che
metterà finalmente in luce il suo rapporto stringente con l’Italia e la città
lagunare.
Se Le Déjeuner sur l’herbe e l’Olympia (1863) sono chiaramente variazioni da
Tiziano e due splendide testimonianze della relazione di Manet con l’arte
italiana, ancora molti sono gli esempi della profonda conoscenza dell’eredità
di Venezia, Firenze e Roma, da parte del grande pittore, che la mostra saprà
svelare. L’itinerario dell’esposizione, che percorre, attraverso grandi
capolavori come Le fifre (1866), La lecture (1865-73), Le balcon (1869), Portrait de Mallarmé (1876 ca.), tutta la sua vita
artistica, si apre con una serie di libere interpretazioni di antichi dipinti,
affreschi e sculture che Manet vide durante i suoi due primi viaggi in Italia,
nel 1853 e nel 1857. Immediata risplende l’influenza veneziana, inseparabile
dall’audacia con la quale il pittore sonda le istanze contemporanee e si defila
dalle convenzioni accademiche. L’Italia del resto non è assente neppure nei
dipinti di Manet più legati alla Spagna: la sua pittura religiosa si nutre
tanto di Tiziano e Andrea del Sarto quanto di El Greco e Velázquez. Le sue
silenti nature morte, dietro alla fedeltà alle formule olandesi, riservano
molte sorprese che non solo rimandano alla tradizione nordica, ma sembrano
anche ispirarsi a un vigore cromatico e costruttivo tutto italiano. Quando il
pittore si avvicina definitivamente alla “moderna” Parigi, la sua pittura non
tralascia la memoria italiana, ma ne resta intrisa di ricordi. Le tele di Lotto
e di Carpaccio, pensiamo alle Due dame veneziane affiancate in mostra a Le Balcon, racconteranno di questi legami ai
visitatori.
Il 1874, anno della I° Esposizione dei Pittori
Impressionisti, è anche quello del suo terzo viaggio in Italia,
dove ritrova anche la città amata da Turner e Byron, che immortala in due
piccole tele, raffiguranti il Canal Grande. È quasi un incrociarsi con
l’atmosfera già modernissima dell’ultimo Guardi. In questi due piccoli ma
magistrali dipinti, che fungeranno da modello per molta pittura veneziana allo
scorcio del XIX secolo, l’aria è così trasparente da far cantare le tonalità
dei blu e dei bianchi della sua tavolozza come non mai. E anche nel suo celebre Bal masqué à l’Opéra (ora
a Washington), rifiutato quell’anno dai giurati del Salon parigino, risuonano
le musiche degli amori mascherati e del gioco ambiguo dell’identità, che
sicuramente ha conosciuto attraverso l’opera del veneziano Pietro Longhi. Il
terzo momento italiano della sua carriera parla delle ultime esperienze di un
artista, che la morte stronca a soli 51 anni (1883). L’ultimo Manet, diviso tra
l’esaltazione dei parigini à la page e la svolta repubblicana del 1879, fa
gioire la pittura e infiammerà il Salon.
Curata da
Stéphane Guégan, con la direzione scientifica di Guy Cogeval e Gabriella Belli,
la mostra si propone come un autentico evento:
mai la pittura di Manet è stata presentata in maniera così significativa in
Italia, e mai è stato affrontato sul piano critico un aspetto così peculiare
della sua arte. Il progetto è reso possibile grazie non solo ai prestiti eccezionali del Musée
d’Orsay ma anche di tantealtre istituzioni
internazionali, come il Metropolitan Museum di New York, la
Bibliothèque Nationale de France, il Courtauld Institute di Londra, The Museum
of Fine Arts di Boston, The National Gallery di Washington, l’Art Institute di
Chicago, il Musée des Beaux-arts di Digione, il Musée di Grenoble, il Musée des
Beaux-arts di Budapest, lo Städel Museum di Francoforte, che hanno aderito
all’evento insieme a numerosi collezionisti privati.
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