lunes, 20 de marzo de 2023

INTERVISTA A RICCARDO MUTI, DI FLAMINIA BUSSOTTI E GIOVANNI DI LORENZO. (Dal sito ufficiale del maestro)

“Mio padre pensava che diventare musicista, per un meridionale, fosse come andare sulla luna”

Intervista di Flaminia Bussotti e Giovanni di Lorenzo pubblicata sul Die Zeit n. 39/2022

Libera traduzione dal tedesco

Riccardo Muti ha appena diretto un concerto di una potenza estenuante al Grosses Festspielhaus di Salisburgo. Al suo ingresso in una suite dell’Hotel Sacher per questa intervista, però, emana la stessa energia che aveva ore prima sul podio. Come ci riesce? No, non si allena mai per mantenersi in forma, neanche per i muscoli di spalle e schiena, pur fortemente sollecitati nel suo lavoro. Pare sia tutta questione di geni. A luglio ha compiuto 81 anni e, ancor prima della nostra domanda, il Maestro comincia:

Riccardo Muti: L’Italia è il Paese del belcanto. Viene il dubbio se questa parola sia un complimento o un insulto. Perché se per belcanto intendiamo il Vincerò urlato per ore [dall’aria Nessun dorma della Turandot di Puccini, N.d.R.], allora parliamo di un fastidio insopportabile: si tiene lunga una nota che tutti sanno dover terminare prima o poi. E, quando succede, si ha come un senso di liberazione. L’opera italiana ama fare uso di questi trucchetti.

Die Zeit: Si è anche infastidito apertamente quando numerosi partecipanti alla Conferenza dei Ministri della Cultura del Mediterraneo, lo scorso giugno a Napoli, si sono uniti nel canto del Vincerò la sera della visita all’Opera.

Muti: Sì. E mentre cantavano il Vincerò, li vedevo intenti ad armeggiare con i cellulari e a rispondere alle telefonate. Tutto questo nel Teatro di San Carlo, probabilmente il Teatro d’Opera storico più importante al mondo, fondato nel 1737 e di circa 40 anni precedente persino alla Scala.

Zeit: Oggi ha diretto al Festival di Salisburgo, che a sua volta esiste da più di 100 anni ormai. Proprio al termine del concerto, durante il Prologo in cielo (dal Mefistofele di Arrigo Boito), una ragazza del coro è svenuta. Lei e l’orchestra siete riusciti a mantenere la concentrazione in una situazione del genere?

Muti: Sono cose che capitano di continuo. Quando succede in prova, si può interrompere immediatamente. Questa volta, però, eravamo in pieno concerto, per di più in diretta sulla radio austriaca ORF. In quel momento, io e l’orchestra abbiamo avuto un attimo di esitazione e per qualche secondo sono stato sul punto di interrompere, ma poi in radio avrebbero dovuto chiarire l’accaduto.

Fortunatamente si è trattato solo di un brutto mal di stomaco, tuttavia sono momenti drammatici in cui continui a dirigere, ma non sai se sia appena avvenuta una tragedia. Alla fine, solo la vita conta.

Zeit: Una volta ha dichiarato che il fatto che una performance non sia mai al 100% la disturba. È stato così anche nel concerto di poco fa?

Muti: Oggi la “ginnastica da podio” è molto di moda, perché le persone sono sempre più interessate a guardare, più che ad ascoltare, vogliono l’elemento spettacolo. In realtà si tratta unicamente del prolungamento del nostro pensiero, come Arturo Toscanini definiva il movimento delle nostre braccia. Mentre dirigiamo, abbiamo in mente una rappresentazione ideale di ciò che vogliamo ottenere, un’idea che però non si lascia mai realizzare al cento percento. La perfezione non esiste: una, due, dieci, venti tesserine di un mosaico che alla fine non si incastrano.

Zeit: Di questo si rammarica?

Muti: Alla fine, sì. Uno dei momenti più difficili e spiacevoli è quello in cui hai reso felice il pubblico, ma non sei soddisfatto della tua prestazione. Ti inchini e ti sforzi di fare una bella espressione ma, a voler essere onesti, pensi a ciò che non ti è riuscito. Soprattutto con l’opera ho provato questo contrasto. Nei concerti sinfonici la responsabilità di ciò che fai è tutta tua, ma nell’opera ci sono la regia, i cantanti, il coro, e di alcuni aspetti rimani più soddisfatto che di altri.

Zeit: È per questo che non sorride quasi mai, persino durante le ovazioni?

Muti: No, quello ha a che fare con i miei insegnanti a scuola. Per di più vengo dal profondo sud Italia: sono per metà napoletano e per metà pugliese. La napoletanità mi ha trasmesso un certo fatalismo, ma anche una visione più ironica della vita. Il pugliese invece è più incisivo, non sorride quasi mai. Anche quando fa un complimento ha un’espressione truce. A scuola si diceva: “Risus abundat in ore stultorum” [“il riso abbonda sulla bocca degli stolti” N.d.R.].

Zeit: Spesso è insoddisfatto, eppure ha ripetuto più volte che il momento per lei più felice è quello in cui lascia il palcoscenico. Cosa significa?

Muti: Non lo so esattamente. Mi è capitato di sentire dei colleghi, soprattutto giovani direttori, che alla richiesta di spiegare cosa provino sul podio, rispondono: “Profonda felicità, grandissima gioia!”. Io non so di cosa parlino, neanche un po’. Perché hai una responsabilità enorme nei confronti di te stesso, dei musicisti, del pubblico, del compositore. Una volta che tutto è passato, allora ci si sente sollevati.

Zeit: Molti artisti dicono però anche che quando sul palco è finito tutto e si esce di scena, rimane un senso di vuoto, di malinconia.

Muti: Io non parlerei di malinconia. C’è però una sorta di vuoto a tutti gli effetti, soprattutto quando il programma ti mette particolarmente alla prova, come oggi. Quando dai così tanto è come se poi brancolassi nel buio e non sapessi dove andare. In un certo senso, io mi sento perso.

Zeit: Cosa fa per uscire da questa sensazione?

Muti: Niente. Ho avuto la fortuna di nascere nel sud Italia e di crescere in un paesino in cui la stravaganza mentale o gli atteggiamenti artistici erano impensabili. Questo ti fa rimanere con i piedi per terra. In più ho avuto una madre meravigliosa, ma molto severa.

Zeit: Era severa con lei anche come artista?

Muti: Sì. Nel 1967, quando vinsi il concorso di direzione d’orchestra a Novara, il teatro era gremito, suonava l’orchestra della RAI e il pubblico applaudiva me, il giovane sul podio. Mio padre, mia madre e i miei quattro fratelli, seduti uno accanto all’altro in platea, erano gli unici che non applaudivano. Mia madre trovava che applaudire un parente fosse segno di debolezza.

Zeit: E questo non l’ha offesa?

Muti: No. Sono cresciuto così. I miei genitori mi hanno insegnato a stare con i piedi per terra e a non fare l’artista che va in giro con papillon e criniera da virtuoso già a dieci anni, come piace fare oggi alla gente.

Zeit: Si dice che Lei sia diventato direttore per puro caso.

Muti: È vero. Ero all’ultimo anno al Conservatorio di Napoli e pensavo di diplomarmi in pianoforte. Ero un buon pianista. Però, un giorno in cui uno studente che avrebbe dovuto dirigere l’orchestra era assente, il Direttore del Conservatorio mi chiamò a sé e mi chiese a bruciapelo: “Hai mai pensato di dirigere?” Risposi di no. Il che era vero. E lui mi disse: “Ti ho sentito suonare il pianoforte. Suoni proprio come un direttore.”

Zeit: Che intuizione!

Muti: Già. Chiamò l’insegnante di direzione d’orchestra, che mi mise in mano la partitura: erano i Concerti per clavicembalo di Bach, quindi qualcosa di relativamente semplice. E così il giorno dopo mi sono presentato di fronte a questa orchestra di studenti e ho cominciato a dirigere. Dopo due o tre minuti era come se il braccio agisse da solo. E ho sentito che la mia professione doveva essere quella.

Zeit: Fu l’unica coincidenza fortunata nella sua vita artistica?

Muti: Sono stato almeno altrettanto fortunato quando, giovanissimo, feci domanda per iscrivermi al Conservatorio di Bari. Al tempo vivevo ancora in Puglia, andavo a scuola a Molfetta e studiavo pianoforte. Fu un caso che proprio quel giorno si trovasse a Bari Nino Rota, che aveva una cattedra lì, ma che in realtà al tempo lavorava alla musica per un film di Fellini a Roma. Mi vide e mi chiese: “E tu chi sei?” Io dissi: “Mi chiamo Muti, vengo da Molfetta”. E lui: “Allora fammi un po’ sentire cosa sai fare”. Suonai un paio di pezzi al pianoforte. Alla fine si alzò e disse: “Ti diamo un dieci e lode per ogni esecuzione, ma non tanto per come hai suonato oggi, quanto per come suonerai domani”. Diventare musicista professionista. Non ce lo saremmo mai immaginato neanche in sogno, né io, né mio padre.

Zeit: Nonostante suo padre fosse molto musicale.

Muti: Aveva una meravigliosa voce da tenore. Tuttavia, quando cominciai a mostrare interesse per la musica, non per questo mi permise di lasciare il ginnasio. Secondo lui, diventare musicista per un italiano del sud era come andare sulla luna. Mio padre era medico, ai suoi occhi fare il musicista non era una professione. Diceva: “Tutt’al più puoi dirigere l’orchestrina di Molfetta”.

Zeit: Considera grandi artisti anche compositori cinematografici come Nino Rota, o popstar come i Beatles?

 

Muti: Sono dei grandi, ciascuno per il proprio genere. Non tengo in gran conto la distinzione tra musica più o meno seria.

Zeit: In Germania si fa molto.

Muti: Naturalmente La Passione secondo Matteo di Bach o la Missa Solemnis di Beethoven sono vere e proprie vette, hanno qualcosa di metafisico. Mi ci sono voluti cinquant’anni per affrontare la Missa Solemnis. Ma la questione importante è che la musica abbia una propria sostanza: anche con la musica leggera, che sia pop, rock o la cosiddetta musica classica contemporanea, si sente subito se ha valore. Oggi ci sono nel mondo migliaia di compositori i cui pezzi vengono eseguiti una o due volte, poi scompaiono e non interessano più a nessuno.

RICCARDO MUTI - ITALIAN NATIONAL ANTHEM/INNO DI MAMELI - SPEECH IN THE ITALIAN PARLIAMENT



Zeit: Ha una spiegazione per questo?

Muti: Ho diretto molta musica contemporanea, perciò non sono certo così cieco, sordo o retrogrado da sostenere che siano tutte inezie. Credo però, anche se mi contraddiranno centinaia di volte, che il nostro sistema biologico sia tarato sul sistema tonale.

Zeit: Cosa significa?

Muti: Ci sono accordi consonanti e accordi dissonanti: la dissonanza genera in noi tensione, disagio, turbamento. Abbiamo quindi il desiderio che questo turbamento si risolva, che l’eterno flusso agitato della dissonanza – ora sto diventando un poeta! – trovi pace nel mare della consonanza. L’intera musica dal XVII al XX secolo trova fondamento in questa sensazione melodica.

Zeit: E oggi?

Muti: La musica classica di oggi, invece, è molto razionale, si affida a nuove armonie e combinazioni sonore, all’uso sempre più complesso delle percussioni. Innesca in noi sensazioni che all’inizio ci eccitano, ma di cui non rimane nulla. È quindi del tutto possibile che non si possa ancora fare a meno di questo sistema melodico. Naturalmente, questa sentenza non resterà impunita: sosterranno tutti che è scandaloso dire una cosa del genere.

Zeit: Cosa esattamente?

Muti: Quando si ascolta la musica contemporanea, il latte diventa ricotta [ride]. Non ho idea del perché. Evidentemente c’è qualcosa che troviamo interessante e straordinario, ma che non ci tocca. Magari lo farà tra 200 anni.

Zeit: Forse dipende da come le persone vengono introdotte alla musica.

Muti: Vedremo. A proposito, c’è un’altra cosa che non capisco: perché la musica di massa è sempre più superficiale, le canzoni pop in primis?

Zeit: È così?

Muti: Per esempio quando ascolto le canzoni vincitrici del Festival di Sanremo, noto che sono incredibilmente semplici. I giovani ne sono contenti, ci si bevono un drink sopra e finisce lì. Al contempo, la cosiddetta musica classica sta diventando sempre più complicata. Tra l’una e l’altra si è creato uno strano abisso, pare che non vi siano più punti di contatto. Robert Schumann una volta paragonò il mestiere del compositore a quello del calzolaio e la musica scritta da Mozart a un paio di scarpe che si adatta a tutti. Oggi facciamo scarpe per pochi intellettuali che hanno un debole per queste nuove forme, suoni e armonie. Non ha più nulla a che vedere con la musica che “muove il cuore di ognuno”. Ma, nonostante il politically correct, bisogna avere il coraggio di dire ciò che è indispensabile per la convivenza umana. E questo vale anche per la musica: quando ci ostiniamo solo su ciò che si può o non si può dire o fare, disumanizziamo l’umanità.

Zeit: Quando lo scorso giugno a Chicago ha diretto Un ballo in maschera di Verdi, ha deciso di conservare un discusso testo originale nel primo atto, che contiene la parola che inizia per “n”. Alla Scala e altrove era già stato cancellato o modificato. Era davvero necessario?

Muti: Cambiare la frase alla Scala non aveva alcun senso. È importante che le prossime generazioni sappiano cosa era concesso in passato, nel bene e nel male. D’altra parte, al David di Michelangelo non mettiamo mica le mutande.

Zeit: Non ammette l’argomentazione secondo cui una parte della popolazione oggi si sentirebbe attaccata o sminuita e che l’opera possa essere modificata di conseguenza?

Muti: Perché uno dovrebbe sentirsi sminuito?

Zeit: In questo caso, perché le minoranze oggi non vogliono più essere discriminate in base al colore della propria pelle.

Muti: Io la vedo diversamente. Oggi sappiamo che la discriminazione, sia essa etnica o sessuale, è un tremendo errore. Ma dobbiamo dire ai giovani: “Guardate! Questi errori sono stati fatti in passato, quindi state attenti a non cadere nelle stesse trappole”.

Zeit: Quindi tiene distinto il personaggio di Verdi dalle idee personali di Verdi?

Muti: Certamente. Modificare questo pezzo del Ballo in Maschera è stato un errore da parte della Scala, del Metropolitan e di tutti gli altri teatri d’opera. Soprattutto non lo hanno capito: nell’opera il giudice, un uomo bianco, definisce l’indovina Ulrica di “immondo sangue dei negri” [dal libretto originale]. È una frase mostruosa. Verdi, però, mettendola in bocca al giudice bianco, lo rende ridicolo, lo smaschera. Non solo: il governatore di Boston e soprattutto Oscar, suo paggio, la difendono e, giustamente, si esprimono perché le sia usata clemenza. È giusto, quindi, far sapere alle persone cosa fu scritto e perché. Cambiarlo significherebbe fare di Verdi un razzista.

Zeit: Ha avuto la possibilità di trasmettere questo suo punto di vista a Chicago? Il tenore che ha cantato la parte del giudice era un sudafricano di colore, Lunga Eric Hallam.

Muti: Eccome. In merito non ho neanche dovuto consultare il Sindaco (di colore) di Chicago, Lori Lightfoot, di cui ho grande stima. Ho chiarito il mio pensiero e ho detto a Lunga Eric Hallam che avremmo trovato un’altra soluzione, se fosse stato restio a pronunciare questa frase. Mi ha risposto: “Maestro, dopo questo chiarimento, non ho alcun problema a farlo”. Quando sono in un posto in cui si dà molto valore al politically correct, so che non devo superare certi confini per non offendere nessuno.

Zeit: Ma pensa che sia giusto o lo vive come una costrizione?

Muti: Più che altro lo trovo esagerato. A Chicago una volta ho usato la parola oriental in una prova e durante la successiva pausa mi è stato cortesemente fatto notare: “Maestro, sarebbe meglio che al posto di oriental usasse il termine asian”. Ho cercato di spiegare che non sono bravo con queste cose: “Mi dispiace, ma sono cresciuto con questa parola, per me l’Oriente è qualcosa di meraviglioso. Inoltre: se loro sono asiatici, io cosa sarei?”. La risposta fu: “You’re caucasian”. Dissi: “Se io dicessi a un contadino di Molfetta Lei è caucasico, lo prenderebbe per un insulto e mi farebbe fuori” [ride].

Zeit: Tra le tante città della sua biografia musicale, Firenze, Chicago, Milano, Berlino, Philadelphia, Salisburgo o Vienna, ce n’è una che l’ha segnata in modo particolare?

Muti: Tutte le città che ha appena citato hanno contribuito alla mia crescita e di questo sono grato alle orchestre, perché è un equivoco pensare che il nuovo direttore insegni qualcosa all’orchestra e la istruisca. Fin dall’inizio è chiaro che l’orchestra spesso la sa molto più lunga del direttore.

Zeit: Lo sapeva anche da principiante?

Muti: Sì. Avrei dovuto dire io, pivello, ciò che volevo e ciò che avevo in mente a un’orchestra che per trent’anni aveva suonato la Settima di Beethoven con i più grandi direttori d’orchestra? Un direttore intelligente sa sempre di poter ricevere e imparare molto dall’orchestra. Così è stato per me, con tutte le orchestre con cui ho collaborato.

Zeit: Torniamo alle città in cui ha lavorato.

Muti: Firenze è la città in cui tutto ha avuto inizio. Anche oggi, quando sono lì, la gente dice: “Guarda, è tornato Muti”. I miei figli sono nati lì. Londra è stato il mio primo grande passo internazionale. Philadelphia è stata la mia prima grande orchestra americana, Berlino mi ha accompagnato per anni, soprattutto nel periodo di Karajan, e poi naturalmente Salisburgo. La mia orchestra attuale è la Chicago Symphony Orchestra, che amo molto. Ma la Filarmonica di Vienna è l’orchestra della mia vita. Dal 1971 a oggi, per me non c’è stato un solo anno senza di loro.

Zeit: Perché questa orchestra?

Muti: Più di ogni altra orchestra al mondo, i Wiener Philharmoniker hanno conservato le radici della loro gloriosa tradizione: il fraseggio tipicamente viennese, impossibile da spiegare, il colore, il suono. Quando gli archi viennesi suonano, non emettono semplicemente dei suoni, ma parlano, lasciano risuonare parole e voci, il che è davvero magico. Questa orchestra può regalare momenti improvvisi di perfetta bellezza… Se il direttore d’orchestra le piace. Altrimenti, talvolta la collaborazione è estremamente difficile. Di tutte le nazioni – va be’, lasciamo fuori l’Italia che è la mia patria e guai a chi la tocca – l’Austria è quella che mi ha dato di più.

Zeit: Quando non si rispecchia nel suono di un’orchestra?

Muti: Quando questa cerca di imitare il suono tecnico dei CD, che fa sì che orchestre eccellenti e di livello inferiore suonino quasi allo stesso modo.

Zeit: Le sarebbe piaciuto diventare il successore di Herbert von Karajan alla Filarmonica di Berlino?

Muti: No, assolutamente no. Ho ancora il massimo rispetto e la più assoluta gratitudine per Karajan, che nel 1971 invitò me, un giovane direttore d’orchestra sconosciuto, a Salisburgo e alla Filarmonica di Berlino perché aveva sentito che avevo un certo talento. Era una persona estremamente generosa che ha aiutato numerosi giovani direttori d’orchestra nella loro carriera. Non avrei mai avuto il coraggio e la presunzione di voler seguire le sue orme.

Zeit: Ma forse lui avrebbe voluto così.

Muti: Non lo so. Ma ricordo molto bene come Karajan stava preparando il Ballo in maschera qui a Salisburgo nel 1989 con Plácido Domingo, tra gli altri. Era molto malato. Una sera tornai a casa tardi e la nostra governante mi riferì di richiamare il Festival di Salisburgo a qualsiasi ora del giorno o della notte. Mi rispose il direttore di allora, Franz Willnauer, dicendo: “Maestro, Karajan è morto stamattina”. Rimasi sconcertato. Pareva che Karajan avesse fatto un solo nome quando gli era stato chiesto chi avrebbe dovuto dirigere il suo Ballo in maschera, se necessario: Muti. E per questo motivo ora mi chiedeva di farlo. Replicai: “Penso che dovreste cancellare lo spettacolo. Karajan non può essere sostituito, è impossibile”. Mi rispose che la direzione aveva apprezzato molto la mia reazione, ma che l’opera doveva essere rappresentata. Può darsi, ho detto, ma di certo non la dirigerò io, perché non ho né la forza, né il coraggio, né l’audacia di salire sul podio subito dopo la sua morte. Rifiutai.

Zeit: Chi ha preso il suo posto?

Muti: Georg Solti [tace].

Zeit: Perché non ha mai accettato l’invito a Bayreuth, pur avendo diretto spesso Wagner?

Muti: Ho fatto tutto di Wagner, solo alla Scala ne ho diretto sei opere. La prima volta che Wolfgang Wagner volle invitarmi fu nel 1972, ma io dissi: “È troppo presto per me. Non sono ancora pronto a dirigere un’opera di Wagner, soprattutto non a Bayreuth”. Alla fine degli anni Ottanta mi offrì Tannhäuser e andai a Bayreuth per vedere il luogo dove ogni direttore d’orchestra deve essere stato una volta per capire il suono che Wagner aveva concepito per quel teatro. L’ho girato tutto e l’ho trovato molto interessante e allettante, ma non mi è scattata la scintilla. Ho pensato a Salisburgo, alle montagne e alla vicina Italia e mi sono detto che avrei preferito fare Wagner alla Scala.

Zeit: Per Lei Wagner diretto lì sarebbe stato troppo tedesco?

Muti: No, piuttosto troppo carico del passato.

Zeit: Si sente compreso dai recensori tedeschi, spesso più critici nei suoi confronti rispetto ai colleghi di altri paesi?

Muti: Per quanto ne so, sì. Leggo le recensioni con una certa leggerezza. Pare che Hans Knappertsbusch [direttore d’orchestra tedesco, 1888-1965] non abbia mai letto molte delle proprie critiche, le disprezzava. Verdi le leggeva e si infuriava perché spesso ne dicevano peste e corna. L’importante è trovare in esse qualcosa che possa esserci utile. Ma è come si dice a Napoli: fatti un nome e infischiatene. Ciò che ho realizzato, i critici non possono più distruggerlo.

Zeit: Ma una volta ha detto che i suoi colleghi scomparsi Arturo Toscanini, Wilhelm Furtwängler e Herbert von Karajan erano molto superiori a lei. Non è un po’ esagerato?

Muti: No, affatto. Toscanini ha cambiato il modo di approcciare la musica da parte del direttore d’orchestra. Si considerava un servitore del compositore e cercava di essere il più fedele possibile al suo lavoro. Furtwängler aveva un feeling particolare con l’improvvisazione. Con Toscanini il pubblico riceveva l’atteso, con Furtwängler l’inaspettato, che talvolta comportava un’imprecisione metrica dell’orchestra quasi impensabile con Toscanini. Karajan, invece, diede al suono una sublimità, una brillantezza, un colore, una grandezza e un significato che non erano mai esistiti prima. Questi tre hanno avuto un’influenza fondamentale su tutti i direttori d’orchestra che sono venuti dopo di loro.

Zeit: E Lei, per quale contributo dovrebbe essere ricordato?

Muti: Rimarrà qualcosa di me? Non lo so. Gli anni passano e la signora in nero è sempre più vicina alla mia porta. D’altra parte, l’altro giorno ho letto sul giornale che una donna è morta a 146 anni. Centoquarantasei, Santo Cielo! Da qualche parte in Oriente, credo.

Zeit: È troppo modesto!

Muti: Non è falsa modestia, io odio la falsa modestia. Credo di aver fatto bene il mio lavoro finora. Mi sono dedicato a Verdi e Mozart molto più intensamente di altri colleghi e c’è un motivo: Verdi e Mozart ci parlano, ci raccontano di noi stessi in tutta la nostra burlesca tragicità. Se si cerca consolazione, bisogna ascoltare Mozart, che ci racconta chi siamo, e Verdi, che alla fine conclude con: “Tutto nel mondo è burla, l’uom è nato burlone” [finale del Falstaff].

Zeit: Non possiamo lasciarci senza che lei commenti la sua abissale avversione per la regia teatrale.

Muti: Questo è un argomento serio e difficile che non può essere affrontato in due minuti. Se vuole davvero parlarne con me, dovremo farlo nella prossima intervista. È un capitolo a sé, perché è facile dire che chi non ama il teatro di regia è un conservatore. Negli anni Settanta, quando Luca Ronconi era un vero rivoluzionario, ho fatto nove produzioni con lui. Quindi posso essere accusato di tutto, ma non di questo. Io distinguo solo tra registi intelligenti e registi stupidi, come tutti.

Photo ©Peter Rigaud for Die Zeit

https://www.riccardomuti.com/2023/02/02/intervista-a-riccardo-muti-di-flaminia-bussotti/

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