"Ho preso le mosse - ci ha spiegato dal
Salone del libro di Torino - da un paradosso: quella che dovrebbe essere una
condizione che chiunque vorrebbe evitare, diventa curiosamente un oggetto di
desiderio, qualcosa che dà carisma, qualcosa che dà autorità, qualcosa che
conferisce una sorta di innocenza, di immunità preliminare a qualunque
critica".
Da qui il possibile identikit della vittima.
"E' qualcuno che non ha un bene da affermare - ha aggiunto lo studioso - e
può, diciamo così, ritagliarsi uno spazio di autorità e di autorevolezza, di
giustificazione per la propria azione, soltanto attraverso il fatto che ha
patito".
Giglioli, ovviamente, non prende di mira le
vittime reali, delle guerre o delle carestie, ma chi, come secondo lui anche
molti "potenti", sfrutta una presunta offesa per legittimare il
proprio ruolo. In un processo che è tutto "in negativo". "A me
sembra - ha detto ancora Giglioli - che la mitologia della vittima sia indice
di una mancanza, una mancanza nostra, più generale, sia di chi fa la vittima,
sia di chi non la fa, che non riesce a produrre un'idea positiva di bene, di
quello che si sarebbe dovuto fare".
Il critico, comunque, nel suo saggio non
fornisce "soluzioni" solo, kantianamente, un metodo. "E' molto
importante - ha concluso Daniele Giglioli - porsi la domanda. Io la risposta
non ce l'ho, ma la domanda mi sembra essenziale, mi sembra urgente".
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