di Caterina
E' davvero così importante
stabilire la supremazia della prosodia francese su quella italiana per ragioni
di primogenitura in un'opera eminentemente politica come il Don Carlos/Don
Carlo? Giova accapigliarsi sulle sue caratteristiche di grand opéra in
contrapposizione all'inarrestabile lavoro di labor limae che Verdi sublimò
nelle revisioni che seguirono la prova generale del 9 Marzo 1867? Le questioni
squisitamente musicologiche, o più semplicemente campanilistiche, diventano
alquanto ininfluenti se confinate nell'ambito dello spettacolo attualmente à
l'affiche all'Opéra Bastille. Dunque Don Carlos in lingua francese, in terra
francese e a 150 anni dal debutto all'Opéra, prevedibilmente preceduto da
esposizione mediatica e febbrile attesa grazie al cast straordinario
scritturato per l'occasione. Ma soprattutto Don Carlos spogliato da ogni
connotazione politica e ridimensionato ad un dramma dell'alta borghesia (forse
imprenditoriale...chissà...) nella quale i rapporti distorti e malati di una
famiglia allargata trascinano ogni singolo componente, padre, matrigna,
figliastro, amante, in un abisso di crudeltà mentali più o meno sottili. La
prospettiva di Krzysztof Warlikowsky,
regista polacco che insieme a Christian Longchamp ha sviluppato la
drammaturgia dello spettacolo, si concentra quindi solamente sull'aspetto
privato dell'opera. Così facendo dimentica che Verdi ha inteso affrontare temi
politici che trattano essenzialmente della natura del potere e della
contrapposizione tra l'assolutismo declinante negli anni in cui nasce la
partitura, e il liberalismo. Oltretutto tralascia un aspetto fondamentale che è
il rapporto tra Stato e Chiesa, quasi un trattato sul delicato equilibrio che
ha sempre legato a doppio filo potere temporale a potere spirituale.
La sfera intima prende il
sopravvento e diventa un catalogo degli orrori: Carlos psicolabile, ovviamente
a piedi nudi ma con strano maglioncino da cricket infeltrito, che, con sguardo
retrospettivo post tentativo di suicidio, ritorna sul suo amore univoco verso
la matrigna, Elisabeth elegante signora, triste ed annoiata che la costumista e
scenografa Malgorzata Szczesniak veste a metà tra Grace Kelly e Soraya,
Philippe dedito all'alcool e in abito scuro, Eboli in versione dominatrice
sado-bisex ed infine il Grande Inquisitore forse esponente della Cupola...
Nel panorama sconfortante
che una umanità di tal fatta offre al pubblico dell'Opéra Bastille, si salva
solo Posa (in effetti quasi dimenticato da Warlikowski forse perchè ritenuto
personaggio poco interessante). Anche qui errore grave di valutazione in quanto
il personaggio manca di quell'ambiguo oscillare tra amicizia sincera e sottile
gioco politico che diventano la forza propulsiva che fa precipitare gli eventi.
Se lo spettatore medio riesce a superare senza troppa fatica le cinque ore
dello spettacolo, digerendo cori di boscaioli diventati visitatori di un museo,
schermidrici sottomesse agli amori saffici di Eboli durante la Canzone del
velo, tentativi di strangolamento nella scena del cofanetto contenente il
ritratto di Carlos e suicidio per avvelenamento di Elisabeth dopo il duetto
finale, il merito è solo ed esclusivamente del cast e della concertazione di
Philippe Jordan.
Alla quinta recita
dell'ipertrofico Don Carlos, l'assimilazione della lingua francese per i
cantanti che avevano in memoria la più consueta versione italiana sembra
perfetta. Se pure l'allestimento conferma una sovrabbondanza di simboli spesso
slegati da un contesto unitario, restano alcuni momenti in cui il canto
ispirato, talvolta doloroso e addolorato o rutilante o sfrontato di alcuni
degli artisti in scena marca il territorio.
Jonas Kaufmann conferma la
sua naturale affinità verso quella tipologia di personaggi fragili, in balia degli eventi, incapaci di
risolvere insanabili contrasti dell'animo e della mente. L'emissione morbida,
la capacità unica di scolpire la parola caricandola di significati che valgono
infinitamente più di qualsiasi trovata registica, fanno di lui interprete di
valore assoluto di un antieroe che Verdi costringe a faticare per tutta la
durata dell'opera senza null'altra gratificazione che una sola aria, per giunta
a freddo all'inizio del primo atto. La psiche turbata, sempre oscillante tra il
desiderio di allontanarsi dalla gelida vita di corte e l'empito d'amore verso
la belle fiancée ora matrigna, il Carlos del duetto Je viens solliciter de la
reine... pennella un capolavoro di equilibrio tra disperazione e impotenza,
terminando con uno psicotico si bemolle conclusivo.
Altro vertice della serata l'incontro immediatamente
precedente con Rodrigue che suggella la grande affinità elettiva fra i due
interpreti maschili che più si comprendono ed interagiscono nel corso della
lunga serata. Ludovic Tézier e Kaufmann hanno infatti una storia comune di
collaborazioni professionali, il che conferma l'istintiva empatia tra i due e
la conseguente capacità di fondere le due interpretazioni grazie anche alla
vicinanza e alla rotondità del timbro. Quasi come fratelli più che come amici,
l'Infante e il Marchese di Posa si sacrificano l'uno per l'altro mentre
colpevolmente Warlikovski li tiene separati, Carlos ingabbiato in una cella più
simile ad un pollaio, mentre il liberale muore tendendo le braccia verso
l'altro.
In precedenza tenore e
baritono avevano fatto scintille nel terzetto del giardino con la strepitosa
Elina Garanca, al suo debutto come Eboli. Eblouissante, questa Principessa
dominatrice sciorina trilli, volatine e colorature strepitose nella Chanson
saracine con un gioco di ammiccamenti e sguardi che personalizzano un momento
di assoluta bellezza. Il suo Don fatal rabbioso scatena il pubblico della
Bastille per l'insolenza e la sicurezza con le quali l'aria viene condotta e
ultimata. Il mezzosoprano lettone è l'indiscusso trionfatore della serata. Al
suo cospetto la sapienza tecnica e l'opulenza del timbro della Elisabeth di
Sonia Yoncheva sono ben poca cosa perchè lasciano un ricordo poco incisivo di
una regina di Spagna malgré elle, così come per il Philippe di Ildar Abdrazakov,
ben lontano dalla caratura necessaria per interpretare colui che è il vero
protagonista dell'opera.
Philippe Jordan tiene
insieme saldamente le redini di un organico orchestrale quasi titanico,
riuscendo a dosare e fondere gli impasti timbrici così particolari e cupi lungo
tutto l'arco temporale. Ciò che ancora manca è la capacità di penetrare e
conquistare la grandezza sia musicale che drammatica che determinano i
significati più profondi dell'opera.
https://amnerisvagante.wordpress.com/2017/10/26/psicodramma-alla-corte-di-filippo-ii/
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