Dedicarlo a noi stessi può aiutarci a non smarrire il senso della nostra vita: fermarsi è un’occasione per capire meglio che cosa davvero amiamo e per orientare in maniera consapevole l’esistenza. Elogio appassionato delle “attività improduttive”
di Nuccio Ordine
«Oserò qui esporre che cosa prescriva la più grande, la più importante, la più preziosa regola di tutta l’educazione? Non già di guadagnar tempo, ma di perderne!»: queste parole di Jean-Jacques Rousseau suonano come una profetica provocazione in un’epoca dove la rapidità e l’utilitarismo hanno trasformato il tempo in denaro e le nostre vite in una folle corsa dominata dalla dittatura della produttività. La riflessione contenuta nell’ Emilio riguarda l’educazione, ma solleva anche dubbi e sospetti che, indipendentemente dall’adesione alla visione pedagogica dello scrittore francese, investono in maniera più ampia ogni aspetto della nostra esistenza.
Spegnere il cellulare e guardare il tramonto
Di fronte all’accelerazione che caratterizza
la società attuale, in che maniera può essere percepita una decisione che punta
a riappropriarsi del tempo collocandosi, anche se per un momento, “fuoritempo”?
Spegnere, per esempio, il cellulare per qualche ora: senza inviare e ricevere
messaggi, senza telefonare e rispondere a chiamate, senza scrivere e leggere
mail. Una preziosa occasione, appunto, per “perdere tempo”. Osservare un
tramonto in riva al mare o veder sorgere la luna piena dietro una montagna o
ammirare i ghirigori di un uccello maestosamente disegnati nell’aria appaiono
esperienze incompatibili con un’economia fondata sul “guadagnar tempo”.
A cosa serve leggere una poesia
Il medesimo discorso vale per quelle attività
che esulano dalla logica produttivistica. La domanda è sempre la stessa: a cosa
serve? A cosa può servire leggere una poesia, ascoltare musica o ammirare
un’opera d’arte? Si tratta di attività considerate (purtroppo) “improduttive”
per cui, chi rinuncia a far fruttare il suo tempo, finisce per sprecarlo
inutilmente. Basta riflettere sul destino della scuola e dell’università, in
queste settimane al centro dell’attenzione a causa dell’incerta e caotica
“ripartenza”, per cogliere fino in fondo le conseguenze di una logica basata
sulle esigenze del mercato e del profitto. All’affermazione provocatoria di
Rousseau, mi piace affiancare alcune brillanti riflessioni di un grande
romanziere come Charles Dickens. In Tempi difficili (1854) già si intravedono i
pericolosi germi di una concezione utilitaristica e mercantilistica
dell’istruzione. Siamo a Coketown, nel Regno Unito. Una città industriale in
cui contano solo i fatti, i soldi, la produzione e il mercato: «Fatti, fatti,
fatti ovunque nell’aspetto materiale della città; fatti, fatti, fatti ovunque
in quello spirituale. La scuola di M’Choakumchild era solo fatti, la scuola di
disegno era solo fatti, le relazioni fra padroni e operai erano solo fatti e
tutte le cose erano fatti, tra l’ospedale dove si nasceva e il cimitero, e ciò
che non si poteva tradurre in cifre o che non si poteva acquistare più a buon
mercato o vendere al prezzo più alto, non esisteva e non avrebbe mai dovuto
esistere, nei secoli dei secoli, amen».
Ogni giorno uguale al precedente e al futuro
Un processo di omologazione che coinvolge
l’intera comunità, composta da gente costretta, ogni giorno, a compiere gli
stessi gesti e a fare le stesse cose: «Persone uguali l’una all’altra, che
uscivano ed entravano tutte alla stessa ora, facendo lo stesso rumore sugli
stessi marciapiedi, che avevano tutte lo stesso lavoro e per le quali ogni giorno
era uguale al giorno precedente e a quello futuro, e ogni anno era la copia
dell’anno passato e di quello ancora di là da venire». All’interno di questo
alienante contesto anche la scuola viene piegata a servire gli interessi del
mercato e del profitto. Nelle parole del grasso banchiere Bounderby
(“criminale”) e del pedagogo Gradgrind (“colui che misura e schiaccia”) si
intravedono le linee direttrici di un’istruzione tesa a combattere tutto ciò
che si oppone alla concretezza dei fatti e alla produzione. Nemico di un
insegnamento aperto all’immaginazione, ai sentimenti, agli affetti, a ogni
forma di curiositas, Gradgrind viene presentato «con una riga, una bilancia e
la tavola pitagorica sempre in tasca», pronto «a pesare e a misurare qualunque
particella della natura umana e a dirvi esattamente a quanto ammonta». Per lui,
l’educazione e la vita si riducono a «pura questione di cifre», a un «caso di
matematica elementare». Così come i giovani alunni vengono considerati «piccoli
recipienti che dovevano essere colmati di fatti».
Se la Banca mondiale decide cosa impareremo
Oggi, purtroppo, questa profetica descrizione
è diventata realtà. Da molti anni, infatti, i parametri internazionali
dell’istruzione vengono sempre più condizionati dalle direttive di agenzie
(pubbliche e private) transnazionali: spetta agli esperti della Banca mondiale,
dell’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico e dell’Organizzazione
mondiale del commercio indicare criteri attraverso cui valutare l’apprendimento
nelle scuole degli Stati membri. Un ambizioso sistema di regole volto a creare
un canone omogeneo in grado di offrire, attraverso periodiche rilevazioni, una
“radiografia” oggettiva e uniforme dei vari sistemi educativi. L’efficienza
dell’istruzione non si misura più sulle “conoscenze” da condividere con gli
studenti, ma sulle “competenze” che gli allievi dovranno acquisire in vista
dello loro futura immissione nel mercato del lavoro. Detto in altri termini:
l’obiettivo ormai non è quello di formare cittadini colti in grado di capire,
criticamente, se stessi e il mondo che li circonda, ma di addestrare
professionisti capaci di adattarsi alle richieste della produzione globale.
«LENTAMENTE SCUOLE E UNIVERSITÀ SFORNERANNO
ESERCITI DI POTENZIALI “IMPRENDITORI” E “COMPRATORI” DA FARE IMPALLIDIRE L’UOMO
D’AFFARI “PROPRIETARIO” DI STELLE INCONTRATO DAL PICCOLO PRINCIPE DI
SAINT-EXUPÉRY»
Pedagogia mercantile e test criminali
I risultati di queste tendenze, frutto di una
“pedagogia mercantile”, già cominciano a venire allo scoperto. In Italia, per
esempio, in una recente verifica Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione
del sistema educativo di istruzione e di formazione) effettuata nel maggio
2018, una delle domande (formulata, tra l’altro, in un pessimo italiano!) del
test somministrato a studenti della scuola primaria conteneva questi quesiti:
«Pensando al tuo futuro, quanto pensi che siano vere queste frasi? A)
Raggiungerò il titolo di studio che voglio. B) Avrò sempre abbastanza soldi per
vivere. C) Nella vita riuscirò a fare ciò che desidero. D) Riuscirò a comprare
le cose che voglio. E) Troverò un buon lavoro». Chiedere a bambini, collocati
in una fascia di età tra 7 e 10 anni, «avrò abbastanza soldi per vivere» o
«riuscirò a comprare le cose che voglio» è un crimine che purtroppo non suscita
nessuna indignazione.
Dominati dalla religione del profitto
Sembra evidente che lo scopo principale
dell’educazione - in sintonia con la religione del profitto che domina ormai in
tutto il mondo - debba essere quello di formare futuri consumatori interessati
solo a un’istruzione funzionale alle esigenze della produzione mondiale per
garantire un accesso a una professione in grado di assicurare lauti guadagni.
Lentamente scuole e università sforneranno eserciti di potenziali “imprenditori”
e “compratori” da far impallidire l’uomo d’affari, “proprietario” di stelle,
incontrato dal piccolo principe nelle sue cosmiche peregrinazioni, genialmente
raccontate da Antoine de Saint-Exupéry. I princìpi ideologici propugnati dal
banchiere Bounderby e dal pedagogo Gradgrind sembrano ormai incarnati in un
lessico preso a prestito esclusivamente dal mondo dell’economia.
«RALLENTARE OGGI SIGNIFICA “PERDERE TEMPO”.
EPPURE LA CONOSCENZA E LE RELAZIONI UMANE HANNO BISOGNO DI LENTEZZA. IN QUESTA
PROSPETTIVA, “PERDERE TEMPO” SIGNIFICA IN REALTÀ “GUADAGNARLO”, IMPADRONIRSI
DEL PROPRIO TEMPO»
La schiavitù di «debiti» e «crediti»
Le prime due parole con cui i nostri studenti
debbono fare i conti appena si iscrivono all’università sono “crediti” e
“debiti”. E mentre in Europa tutti i governi, per decenni, hanno tagliato fondi
all’istruzione, da anni si finanziano massici investimenti per la didattica
digitale. La drammatica esperienza della pandemia ha contribuito ad accelerare
processi che erano già nell’aria. Il prezioso soccorso della tecnologia durante
i mesi di isolamento è stato considerato come una grande opportunità per
cogliere le straordinarie potenzialità dell’insegnamento telematico. Aver
confuso l’emergenza con la normalità, ha rafforzato la platea dei sostenitori
convinti che la scuola moderna la facciano i computer e le lavagne connesse e
non i buoni professori. Un’occasione per considerare la lezione magistrale (che
da Socrate a qualche decennio fa aveva mantenuto vivo il rapporto diretto tra
maestri e allievi) come un vecchio arnese obsoleto da sostituire con
spettacolari programmi didattici multimediali. Stiamo dimenticando che solo un
bravo docente, e non una piattaforma digitale, potrà cambiare la vita di uno
studente.
Scuola deriva dal greco skholè che significa ozio
L’enfatizzazione della didattica a distanza e
delle esigenze del mercato stanno contribuendo a far perdere di vista
l’autentica missione dell’insegnamento e della ricerca: il termine scuola
deriva dal greco skholè che significa ozio, tempo libero, «piacevole uso delle
proprie forze, soprattutto spirituali, indipendentemente da ogni bisogno o
scopo pratico». Per queste ragioni i professori non possono essere manager e
procacciatori di affari. Le scuole e le università non possono essere aziende
che vendono diplomi. Gli studenti non possono essere clienti che acquistano
“passaporti” per il mondo del lavoro. Non si studia soltanto per imparare un
mestiere. Non è vero che sia “utile” solo ciò che produce profitto e guadagno.
E, a maggior ragione, i laboratori scientifici non sono distributori automatici
in cui le aziende mettono soldi per selezionare e acquisire i prodotti che
desiderano.
La lentezza che serve alla conoscenza
L’universo dell’educazione è uno specchio in
cui si riflettono le contraddizioni della società. Così al culto della
produttività e del profitto si aggiunge anche quello della rapidità. La
velocità è diventata sempre più espressione della potenza sociale, dell’efficienza,
dell’economizzazione del tempo. Rallentare, oggi, significa “perdere tempo”.
Eppure, a riflettere bene, la conoscenza, le relazioni umane e il nostro
rapporto con la vita hanno soprattutto bisogno di “lentezza”. Basta rileggere
un bellissimo elogio che Friedrich Nietzsche dedica alla filologia (scienza in
via di estinzione perché gli anni che richiede l’edizione di un classico sono
in contrasto con il meccanismo quantitativo delle valutazioni nei concorsi
universitari) per capire l’importanza essenziale del lento: «Filologia,
infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una
cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento,
essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un
finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento». Una
riflessione rivoluzionaria che vuole essere una feroce critica alla dittatura
«della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia» tesa a «’sbrigare’
immediatamente ogni cosa».
Sprecare anni
All’interno di questa prospettiva, prendere
tempo non significa perdere tempo, ma significa, al contrario, guadagnare
tempo, impadronirsi del proprio tempo. “Perdere” un’ora al giorno per noi
stessi può aiutarci a non “perdere” il senso della nostra vita: fermarsi, e
dedicare tempo alla riflessione, è un’occasione per capire che cosa davvero
amiamo e per orientare in maniera consapevole la nostra esistenza. Perdere
tempo vuol dire rendere più umano il nostro tempo e la nostra vita.
Disconnettersi per rinunciare alla rapidità e all’urgenza, è un imperativo per
riconquistare la libertà perduta e per relazionarsi agli altri e al mondo con
più equilibrio, senza fretta, senza furia, senza nessun bisogno di
precipitarsi. Solo così potremo scoprire, come ci ha insegnato il colonnello
Aureliano Buendía, la feconda inutilità di compiere azioni e gesti privi di
ogni finalità utilitaristica. Rinchiuso nel suo segreto laboratorio a Macondo,
infatti, il protagonista di Cent’anni di solitudine fabbrica pesciolini d’oro
in cambio di monete d’oro che poi vengono fuse per produrre nuovamente altri
pesciolini. Circolo vizioso che non sfugge alle critiche di Ursula, all’occhio
affettuoso della madre preoccupata per il futuro del figlio: «Col suo terribile
senso pratico, Ursula non poteva capire quale fosse il guadagno del colonnello,
che cambiava i pesciolini con monete d’oro, e poi trasformava le monete d’oro
in pesciolini, e così via, di modo che era costretto a lavorare sempre più a
mano a mano che aumentavano le vendite, per soddisfare un esasperante circolo
vizioso. In verità, ciò che gli interessava non era il guadagno ma il lavoro».
«COMPIERE ATTI GRATUITI E DISINTERESSATI,
PRIVI DI UNA PRECISA FINALITÀ, CAPACI DI RIFIUTARE QUALSIASI LOGICA COMMERCIALE
VUOL DIRE COLTIVARE VALORI ALTERNATIVI ALLA SUPREMAZIA DELLE LEGGI DEL
GUADAGNO, ALLA DITTATURA DELL’URGENZA»
Coltivare l’alternativa
Inseguendo le sue passioni, il colonnello
confessa con grande candore che «i suoi unici attimi di felicità, dal pomeriggio
remoto in cui il padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio, erano
trascorsi nel laboratorio di oreficeria, dove passava il tempo montando
pesciolini d’oro». Probabilmente, proprio questa semplicità, motivata solo da
un’autentica gioia lontana da qualsiasi aspirazione al profitto, ci aiuta a
capire l’importanza di ciò che (ingiustamente) la nostra società ritiene
“inutile”, perché non monetizzabile. Compiere atti gratuiti e disinteressati,
privi di una precisa finalità, capaci di rifiutare qualsiasi logica
commerciale, significa coltivare valori alternativi alla supremazia delle leggi
del mercato e del guadagno, alla dittatura della rapidità e dell’urgenza. Non è
il raggiungimento della meta lo scopo del nostro viaggio: ma, come ci suggerisce
Costantino Kavafis nella sua bellissima poesia intitolata Itaca , è
l’esperienza che compiamo durante il percorso per raggiungere l’isola a
renderci ricchi e migliori.
Abbandonarsi alla curiositas
Fermare o rallentare il tempo della
produttività vuol dire abbandonarsi all’avventura degli incontri inattesi e
improbabili. È proprio in questo spazio di libertà che possiamo coltivare la
nostra curiositas per alimentare la riflessione e la creatività. Si tratta di
uno scarto necessario, di un «disguido del possibile» per dirla con Eugenio
Montale, in grado di aprirci alle sorprese della vita. Il vero bene di lusso,
in una società in cui il virtuale sta assorbendo ogni aspetto della nostra
esistenza, coinciderà sempre più con il dedicarsi alle relazioni umane. Perdere
tempo, insomma, per consacrarsi agli affetti, per riflettere, per ascoltare
musica, per ammirare un quadro, per riconcorrere una farfalla, per godere le
meraviglie della natura significa guadagnare tempo per sé e per gli altri,
contribuendo a rendere l’umanità più umana.
https://www.corriere.it/sette/cultura-societa/20_ottobre_02/sprecare-tempo-fa-bene-perdere-un-ora-giorno-aiuta-noi-altri-362275c0-026e-11eb-a582-994e7abe3a15.shtml
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