sábado, 5 de diciembre de 2020

SPRECARE TEMPO FA BENE, PERDERE UN’ORA AL GIORNO AIUTA NOI E GLI ALTRI

 Dedicarlo a noi stessi può aiutarci a non smarrire il senso della nostra vita: fermarsi è un’occasione per capire meglio che cosa davvero amiamo e per orientare in maniera consapevole l’esistenza. Elogio appassionato delle “attività improduttive”

di Nuccio Ordine

«Oserò qui esporre che cosa prescriva la più grande, la più importante, la più preziosa regola di tutta l’educazione? Non già di guadagnar tempo, ma di perderne!»: queste parole di Jean-Jacques Rousseau suonano come una profetica provocazione in un’epoca dove la rapidità e l’utilitarismo hanno trasformato il tempo in denaro e le nostre vite in una folle corsa dominata dalla dittatura della produttività. La riflessione contenuta nell’ Emilio riguarda l’educazione, ma solleva anche dubbi e sospetti che, indipendentemente dall’adesione alla visione pedagogica dello scrittore francese, investono in maniera più ampia ogni aspetto della nostra esistenza.

Spegnere il cellulare e guardare il tramonto

Di fronte all’accelerazione che caratterizza la società attuale, in che maniera può essere percepita una decisione che punta a riappropriarsi del tempo collocandosi, anche se per un momento, “fuoritempo”? Spegnere, per esempio, il cellulare per qualche ora: senza inviare e ricevere messaggi, senza telefonare e rispondere a chiamate, senza scrivere e leggere mail. Una preziosa occasione, appunto, per “perdere tempo”. Osservare un tramonto in riva al mare o veder sorgere la luna piena dietro una montagna o ammirare i ghirigori di un uccello maestosamente disegnati nell’aria appaiono esperienze incompatibili con un’economia fondata sul “guadagnar tempo”.

A cosa serve leggere una poesia

Il medesimo discorso vale per quelle attività che esulano dalla logica produttivistica. La domanda è sempre la stessa: a cosa serve? A cosa può servire leggere una poesia, ascoltare musica o ammirare un’opera d’arte? Si tratta di attività considerate (purtroppo) “improduttive” per cui, chi rinuncia a far fruttare il suo tempo, finisce per sprecarlo inutilmente. Basta riflettere sul destino della scuola e dell’università, in queste settimane al centro dell’attenzione a causa dell’incerta e caotica “ripartenza”, per cogliere fino in fondo le conseguenze di una logica basata sulle esigenze del mercato e del profitto. All’affermazione provocatoria di Rousseau, mi piace affiancare alcune brillanti riflessioni di un grande romanziere come Charles Dickens. In Tempi difficili (1854) già si intravedono i pericolosi germi di una concezione utilitaristica e mercantilistica dell’istruzione. Siamo a Coketown, nel Regno Unito. Una città industriale in cui contano solo i fatti, i soldi, la produzione e il mercato: «Fatti, fatti, fatti ovunque nell’aspetto materiale della città; fatti, fatti, fatti ovunque in quello spirituale. La scuola di M’Choakumchild era solo fatti, la scuola di disegno era solo fatti, le relazioni fra padroni e operai erano solo fatti e tutte le cose erano fatti, tra l’ospedale dove si nasceva e il cimitero, e ciò che non si poteva tradurre in cifre o che non si poteva acquistare più a buon mercato o vendere al prezzo più alto, non esisteva e non avrebbe mai dovuto esistere, nei secoli dei secoli, amen».

Ogni giorno uguale al precedente e al futuro

Un processo di omologazione che coinvolge l’intera comunità, composta da gente costretta, ogni giorno, a compiere gli stessi gesti e a fare le stesse cose: «Persone uguali l’una all’altra, che uscivano ed entravano tutte alla stessa ora, facendo lo stesso rumore sugli stessi marciapiedi, che avevano tutte lo stesso lavoro e per le quali ogni giorno era uguale al giorno precedente e a quello futuro, e ogni anno era la copia dell’anno passato e di quello ancora di là da venire». All’interno di questo alienante contesto anche la scuola viene piegata a servire gli interessi del mercato e del profitto. Nelle parole del grasso banchiere Bounderby (“criminale”) e del pedagogo Gradgrind (“colui che misura e schiaccia”) si intravedono le linee direttrici di un’istruzione tesa a combattere tutto ciò che si oppone alla concretezza dei fatti e alla produzione. Nemico di un insegnamento aperto all’immaginazione, ai sentimenti, agli affetti, a ogni forma di curiositas, Gradgrind viene presentato «con una riga, una bilancia e la tavola pitagorica sempre in tasca», pronto «a pesare e a misurare qualunque particella della natura umana e a dirvi esattamente a quanto ammonta». Per lui, l’educazione e la vita si riducono a «pura questione di cifre», a un «caso di matematica elementare». Così come i giovani alunni vengono considerati «piccoli recipienti che dovevano essere colmati di fatti».

 

Se la Banca mondiale decide cosa impareremo

Oggi, purtroppo, questa profetica descrizione è diventata realtà. Da molti anni, infatti, i parametri internazionali dell’istruzione vengono sempre più condizionati dalle direttive di agenzie (pubbliche e private) transnazionali: spetta agli esperti della Banca mondiale, dell’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico e dell’Organizzazione mondiale del commercio indicare criteri attraverso cui valutare l’apprendimento nelle scuole degli Stati membri. Un ambizioso sistema di regole volto a creare un canone omogeneo in grado di offrire, attraverso periodiche rilevazioni, una “radiografia” oggettiva e uniforme dei vari sistemi educativi. L’efficienza dell’istruzione non si misura più sulle “conoscenze” da condividere con gli studenti, ma sulle “competenze” che gli allievi dovranno acquisire in vista dello loro futura immissione nel mercato del lavoro. Detto in altri termini: l’obiettivo ormai non è quello di formare cittadini colti in grado di capire, criticamente, se stessi e il mondo che li circonda, ma di addestrare professionisti capaci di adattarsi alle richieste della produzione globale.

 

«LENTAMENTE SCUOLE E UNIVERSITÀ SFORNERANNO ESERCITI DI POTENZIALI “IMPRENDITORI” E “COMPRATORI” DA FARE IMPALLIDIRE L’UOMO D’AFFARI “PROPRIETARIO” DI STELLE INCONTRATO DAL PICCOLO PRINCIPE DI SAINT-EXUPÉRY»

Pedagogia mercantile e test criminali

I risultati di queste tendenze, frutto di una “pedagogia mercantile”, già cominciano a venire allo scoperto. In Italia, per esempio, in una recente verifica Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) effettuata nel maggio 2018, una delle domande (formulata, tra l’altro, in un pessimo italiano!) del test somministrato a studenti della scuola primaria conteneva questi quesiti: «Pensando al tuo futuro, quanto pensi che siano vere queste frasi? A) Raggiungerò il titolo di studio che voglio. B) Avrò sempre abbastanza soldi per vivere. C) Nella vita riuscirò a fare ciò che desidero. D) Riuscirò a comprare le cose che voglio. E) Troverò un buon lavoro». Chiedere a bambini, collocati in una fascia di età tra 7 e 10 anni, «avrò abbastanza soldi per vivere» o «riuscirò a comprare le cose che voglio» è un crimine che purtroppo non suscita nessuna indignazione.

Dominati dalla religione del profitto

Sembra evidente che lo scopo principale dell’educazione - in sintonia con la religione del profitto che domina ormai in tutto il mondo - debba essere quello di formare futuri consumatori interessati solo a un’istruzione funzionale alle esigenze della produzione mondiale per garantire un accesso a una professione in grado di assicurare lauti guadagni. Lentamente scuole e università sforneranno eserciti di potenziali “imprenditori” e “compratori” da far impallidire l’uomo d’affari, “proprietario” di stelle, incontrato dal piccolo principe nelle sue cosmiche peregrinazioni, genialmente raccontate da Antoine de Saint-Exupéry. I princìpi ideologici propugnati dal banchiere Bounderby e dal pedagogo Gradgrind sembrano ormai incarnati in un lessico preso a prestito esclusivamente dal mondo dell’economia.

«RALLENTARE OGGI SIGNIFICA “PERDERE TEMPO”. EPPURE LA CONOSCENZA E LE RELAZIONI UMANE HANNO BISOGNO DI LENTEZZA. IN QUESTA PROSPETTIVA, “PERDERE TEMPO” SIGNIFICA IN REALTÀ “GUADAGNARLO”, IMPADRONIRSI DEL PROPRIO TEMPO»

La schiavitù di «debiti» e «crediti»

Le prime due parole con cui i nostri studenti debbono fare i conti appena si iscrivono all’università sono “crediti” e “debiti”. E mentre in Europa tutti i governi, per decenni, hanno tagliato fondi all’istruzione, da anni si finanziano massici investimenti per la didattica digitale. La drammatica esperienza della pandemia ha contribuito ad accelerare processi che erano già nell’aria. Il prezioso soccorso della tecnologia durante i mesi di isolamento è stato considerato come una grande opportunità per cogliere le straordinarie potenzialità dell’insegnamento telematico. Aver confuso l’emergenza con la normalità, ha rafforzato la platea dei sostenitori convinti che la scuola moderna la facciano i computer e le lavagne connesse e non i buoni professori. Un’occasione per considerare la lezione magistrale (che da Socrate a qualche decennio fa aveva mantenuto vivo il rapporto diretto tra maestri e allievi) come un vecchio arnese obsoleto da sostituire con spettacolari programmi didattici multimediali. Stiamo dimenticando che solo un bravo docente, e non una piattaforma digitale, potrà cambiare la vita di uno studente.

Scuola deriva dal greco skholè che significa ozio

L’enfatizzazione della didattica a distanza e delle esigenze del mercato stanno contribuendo a far perdere di vista l’autentica missione dell’insegnamento e della ricerca: il termine scuola deriva dal greco skholè che significa ozio, tempo libero, «piacevole uso delle proprie forze, soprattutto spirituali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico». Per queste ragioni i professori non possono essere manager e procacciatori di affari. Le scuole e le università non possono essere aziende che vendono diplomi. Gli studenti non possono essere clienti che acquistano “passaporti” per il mondo del lavoro. Non si studia soltanto per imparare un mestiere. Non è vero che sia “utile” solo ciò che produce profitto e guadagno. E, a maggior ragione, i laboratori scientifici non sono distributori automatici in cui le aziende mettono soldi per selezionare e acquisire i prodotti che desiderano.

La lentezza che serve alla conoscenza

L’universo dell’educazione è uno specchio in cui si riflettono le contraddizioni della società. Così al culto della produttività e del profitto si aggiunge anche quello della rapidità. La velocità è diventata sempre più espressione della potenza sociale, dell’efficienza, dell’economizzazione del tempo. Rallentare, oggi, significa “perdere tempo”. Eppure, a riflettere bene, la conoscenza, le relazioni umane e il nostro rapporto con la vita hanno soprattutto bisogno di “lentezza”. Basta rileggere un bellissimo elogio che Friedrich Nietzsche dedica alla filologia (scienza in via di estinzione perché gli anni che richiede l’edizione di un classico sono in contrasto con il meccanismo quantitativo delle valutazioni nei concorsi universitari) per capire l’importanza essenziale del lento: «Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento». Una riflessione rivoluzionaria che vuole essere una feroce critica alla dittatura «della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia» tesa a «’sbrigare’ immediatamente ogni cosa».

Sprecare anni

All’interno di questa prospettiva, prendere tempo non significa perdere tempo, ma significa, al contrario, guadagnare tempo, impadronirsi del proprio tempo. “Perdere” un’ora al giorno per noi stessi può aiutarci a non “perdere” il senso della nostra vita: fermarsi, e dedicare tempo alla riflessione, è un’occasione per capire che cosa davvero amiamo e per orientare in maniera consapevole la nostra esistenza. Perdere tempo vuol dire rendere più umano il nostro tempo e la nostra vita. Disconnettersi per rinunciare alla rapidità e all’urgenza, è un imperativo per riconquistare la libertà perduta e per relazionarsi agli altri e al mondo con più equilibrio, senza fretta, senza furia, senza nessun bisogno di precipitarsi. Solo così potremo scoprire, come ci ha insegnato il colonnello Aureliano Buendía, la feconda inutilità di compiere azioni e gesti privi di ogni finalità utilitaristica. Rinchiuso nel suo segreto laboratorio a Macondo, infatti, il protagonista di Cent’anni di solitudine fabbrica pesciolini d’oro in cambio di monete d’oro che poi vengono fuse per produrre nuovamente altri pesciolini. Circolo vizioso che non sfugge alle critiche di Ursula, all’occhio affettuoso della madre preoccupata per il futuro del figlio: «Col suo terribile senso pratico, Ursula non poteva capire quale fosse il guadagno del colonnello, che cambiava i pesciolini con monete d’oro, e poi trasformava le monete d’oro in pesciolini, e così via, di modo che era costretto a lavorare sempre più a mano a mano che aumentavano le vendite, per soddisfare un esasperante circolo vizioso. In verità, ciò che gli interessava non era il guadagno ma il lavoro».

«COMPIERE ATTI GRATUITI E DISINTERESSATI, PRIVI DI UNA PRECISA FINALITÀ, CAPACI DI RIFIUTARE QUALSIASI LOGICA COMMERCIALE VUOL DIRE COLTIVARE VALORI ALTERNATIVI ALLA SUPREMAZIA DELLE LEGGI DEL GUADAGNO, ALLA DITTATURA DELL’URGENZA»

Coltivare l’alternativa

Inseguendo le sue passioni, il colonnello confessa con grande candore che «i suoi unici attimi di felicità, dal pomeriggio remoto in cui il padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio, erano trascorsi nel laboratorio di oreficeria, dove passava il tempo montando pesciolini d’oro». Probabilmente, proprio questa semplicità, motivata solo da un’autentica gioia lontana da qualsiasi aspirazione al profitto, ci aiuta a capire l’importanza di ciò che (ingiustamente) la nostra società ritiene “inutile”, perché non monetizzabile. Compiere atti gratuiti e disinteressati, privi di una precisa finalità, capaci di rifiutare qualsiasi logica commerciale, significa coltivare valori alternativi alla supremazia delle leggi del mercato e del guadagno, alla dittatura della rapidità e dell’urgenza. Non è il raggiungimento della meta lo scopo del nostro viaggio: ma, come ci suggerisce Costantino Kavafis nella sua bellissima poesia intitolata Itaca , è l’esperienza che compiamo durante il percorso per raggiungere l’isola a renderci ricchi e migliori.

Abbandonarsi alla curiositas

Fermare o rallentare il tempo della produttività vuol dire abbandonarsi all’avventura degli incontri inattesi e improbabili. È proprio in questo spazio di libertà che possiamo coltivare la nostra curiositas per alimentare la riflessione e la creatività. Si tratta di uno scarto necessario, di un «disguido del possibile» per dirla con Eugenio Montale, in grado di aprirci alle sorprese della vita. Il vero bene di lusso, in una società in cui il virtuale sta assorbendo ogni aspetto della nostra esistenza, coinciderà sempre più con il dedicarsi alle relazioni umane. Perdere tempo, insomma, per consacrarsi agli affetti, per riflettere, per ascoltare musica, per ammirare un quadro, per riconcorrere una farfalla, per godere le meraviglie della natura significa guadagnare tempo per sé e per gli altri, contribuendo a rendere l’umanità più umana.

https://www.corriere.it/sette/cultura-societa/20_ottobre_02/sprecare-tempo-fa-bene-perdere-un-ora-giorno-aiuta-noi-altri-362275c0-026e-11eb-a582-994e7abe3a15.shtml

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