A finales de junio, me fui finalmente a Roma. Viaje tantas veces postergado por varios motivos. Estrenado el lapso de más de 2 semanas desde la segunda dosis, llegué para ver a la familia e Il Trovatore al Circo massimo.
Una tarde, en el hotel, después de la ducha, Larissa, mi hoija, me envió esta entrevista que acaba de leer recién publicada en Il Corriere. No había podido esperar a encontrarnos esa noche, para que la leyera. La comentamos en la cena. Con devoción, casi en religión y una completa empatía. No me había decidido a publicarla, para mantener el misterio, la magia. pero aquí está...Una vez más, gracias Maestro y muchos besos, Lara.
Alicia Perris
Aldo Cazzullo
Il grande musicista alla vigilia degli 80
anni: «Ai miei funerali voglio silenzio, se qualcuno applaude tornerò a
disturbarlo la notte». Su Abbado: «C’era reciproca ammirazione». Pavarotti?
«Venne a sue spese dagli Usa a cantare per dei tossicodipendenti. Non me lo
dimenticherò». Smartphone? «Non ce l'ho, non lo voglio»
RAVENNA - Maestro Muti, qual è il suo primo
ricordo?
«La guerra: mio padre in divisa da ufficiale
medico. Poi, nel 1946, una gita in carrozza a Castel del Monte. Partimmo da
Molfetta, viaggiammo tutta la notte. All’alba il cocchiere Nicola aprì la
tendina, e apparve quella corona di pietra. Rimasi stupefatto. Da allora sono
ossessionato da Federico II, ho la casa piena di libri su di lui. Ho anche
comprato un pezzetto di terra lì vicino, con qualche piccolo trullo, che
chiamano casedde, dove a maggio tra gli ulivi fioriscono le orchidee
selvatiche. Spero di passare in contemplazione del castello questi ultimi anni
che mi restano».
Lei ne compie ottanta tra un mese.
«E mi sono stancato della vita».
Perché dice questo?
«Perché è un mondo in cui non mi riconosco
più. E siccome non posso pretendere che il mondo si adatti a me, preferisco
togliermi di mezzo. Come nel Falstaff: “Tutto declina”».
Insisto: perché dice questo?
«Perché ho avuto la fortuna di crescere negli
anni 50, di frequentare il liceo di Molfetta dove aveva studiato Salvemini, con
professori non severi; severissimi. Ricordo un’interrogazione di latino alle
medie. L’insegnante mi chiese: “Pluit aqua”; che caso è aqua? Anziché ablativo,
risposi: nominativo. Mi afferrò per le orecchie e mi scosse come la corda di
una campana. Grazie a quel professore, non ho più sbagliato una citazione in latino.
Oggi lo arresterebbero».
Rimpiange le punizioni corporali?
«Certo che no. Rimpiango la serietà. Lo
spirito con cui Federico II fece scolpire sulla porta di Capua, sotto il busto
di Pier delle Vigne e di Taddeo da Sessa, il motto: “Intrent securi qui
quaerunt vivere puri”; entrino sicuri coloro che intendono vivere onestamente.
Questa è la politica dell’immigrazione e dell’integrazione che servirebbe».
Non riconosce più neanche il suo mestiere?
«Purtroppo no. La direzione d’orchestra è
spesso diventata una professione di comodo. Sovente i giovani arrivano a
dirigere senza studi lunghi e seri. Affrontano opere monumentali all’inizio
dell’attività, basandosi sull’efficienza del gesto, talora della
gesticolazione».
Gesticolazione?
«Toscanini diceva che le braccia sono
l’estensione della mente. Oggi molti direttori d’orchestra usano il podio per
gesticolazioni eccessive, da show, cercando di colpire un pubblico più incline
a ciò che vede e meno a ciò che sente».
Chi? Faccia i nomi.
«No».
I nomi.
«Non voglio polemiche personali: farei il
gioco dei promotori di se stessi. Il mio maestro, Antonino Votto, diceva che il
direttore doveva aver respirato la polvere del palcoscenico. Invece le
orchestre, i cori, i cantanti lamentano una mancanza sempre più evidente di
informazioni musicali e drammaturgiche da parte dei direttori. Non si fanno
neppure più prove serie».
Neanche le prove?
«Le prove di sala, con il direttore al
pianoforte che prepara la compagnia di canto, diminuiscono sempre più, in
favore di settimane e settimane di prove date spesso a registi ignari di
musica, che non soltanto non sanno leggere una partitura, ma sempre più sovente
inventano storie che vanno contro il discorso musicale. Nel carteggio con
Kandinsky, Schoenberg sottolinea che, se la regia e la scenografia disturbano
la musica, sono sbagliate. E certo Schoenberg non era un reazionario».
Forse lei sì.
«Non credo. Sono il direttore che ha fatto più
produzioni, nove dagli anni 70, insieme con Ronconi, che certo non era un
reazionario, soprattutto a quell’epoca. Sono ancora sotto l’influenza di
Strehler, che non soltanto conosceva la musica ed era in grado di leggere una
partitura, ma perseguiva il Bello: non come fatto estetico, come necessità
della vera arte. Le mie produzioni con Strehler —Le Nozze di Figaro, il Don
Giovanni, il Falstaff— mi hanno accompagnato e mi accompagneranno per tutta la
vita e mi hanno insegnato molto. Ecco perché talvolta, forse esagerando, dico
che sono stanco della vita. Penso di non appartenere più a un mondo che sta
capovolgendo del tutto quei principi di cultura, di etica nell’arte con cui
sono cresciuto e che i miei insegnanti al liceo e al conservatorio mi hanno
comunicato».
Ha qualche rimpianto?
«Sì. Proprio adesso che ho finito di dirigere
Aidain forma di concerto all’Arena, il mio rimpianto è non aver potuto fare
Aida con Strehler, com’era nei nostri piani».
Come sarebbe stata?
«Senza elefanti. Giorgio credeva in un’Aida
dove il trionfo fosse solo nella musica, non in quel faraonismo che ha
caratterizzato le produzioni di Aida dovunque nel mondo, fino a diventare il
simbolo stesso di Aida, nuocendo alla vera essenza dell’opera. Che è costruita
su una delle partiture più raffinate e delicate di Verdi. E questo non vale
solo per Aida».
Cosa intende dire?
«Non vorrei essere l’uccello del malaugurio;
ma il costo esorbitante di scenografie e costumi, accanto alla scarsa
competenza e autorevolezza dei direttori d’orchestra che — con le dovute
eccezioni — lasciano i cantanti senza guida, mi preoccupano sul futuro
dell’opera. L’Italia è piena di teatri del ’700 e dell’800 ancora chiusi. L’ho
detto a Franceschini: riapriteli, dateli ai giovani. Formate nuove orchestre:
ci sono Regioni che non ne hanno. Aiutate le centinaia di bande che
languiscono, ridotte al silenzio da un anno e mezzo, con il disastro economico
delle famiglie. Dobbiamo fare molte cose, se vogliamo che il nostro patrimonio operistico,
il più eseguito al mondo, non sia considerato occasione di piacevole
intrattenimento ma fonte di educazione e cultura, come le opere di Mozart,
Wagner, Strauss. Verdi non è zum-pa-pa!».
Com’erano davvero i suoi rapporti con Abbado?
«Tra noi c’è stata sempre ammirazione
reciproca. Hanno voluto montare una rivalità tipo Callas-Tebaldi o
Coppi-Bartali: tutto falso. Quando sono andato al conservatorio di Milano,
Abbado era già in carriera: abbiamo avuto rare occasioni di incontrarci, ma
sempre cordiali».
E con Pavarotti?
«Ho cominciato a lavorare con lui nel 1969,
con i Puritani alla Rai di Roma. Poi abbiamo avuto momenti di frizione...».
Per quale motivo?
«Fatti tecnici. Incomprensioni musicali.
Tramutate in una grande amicizia. Devo a Pavarotti una delle più belle, se non
la più bella voce della seconda metà del Novecento. Lui mi ha regalato cose
meravigliose: un Pagliacci registrato in disco a Filadelfia, un Requiem di
Verdi alla Scala, e soprattutto il Don Carlo scaligero, dove Pavarotti in particolare
nel finale dà una lezione di tecnica vocale, di fraseggio perfetto, davvero di
grande ispirazione. Sulle parole “ma lassù ci vedremo in un mondo migliore”
riconosco la sua generosità. Diversi anni prima che morisse, mia moglie e io lo
invitammo a Forlì a un concerto di beneficienza per una comunità di
tossicodipendenti. Pavarotti venne apposta dall’America. Non volle una lira, si
pagò lui il biglietto aereo. Lo accompagnai per tutta la serata al pianoforte,
di fronte a settemila persone. Un gesto che non potrò mai dimenticare».
Qual è l’ultimo ricordo che ha di lui?
«La salma nel Duomo di Modena, la piazza che
risuona del famoso “Vincerò...”. Io avrei preferito che fosse messo il finale
del Don Carlo. Non solo per il significato delle parole, ma anche per la
lezione di canto, per la sottolineatura di un aspetto della vocalità di
Pavarotti non trionfaliLei pensa che davvero ci vedremo in un mondo migliore?
«Non lo so. Certo non nei Campi Elisi. Spero
ci sia tanta luce; mi basta che non ci sia la metempsicosi. Non ho voglia di
rinascere, tanto meno ragno o topo, ma neanche leone. Una vita è più che
sufficiente».
Crede in Dio?
«Ho avuto una formazione cattolica. Ho
ammirato molto papa Ratzinger, anche come magnifico musicista. Non credo nei
santini di Gesù biondo. Dentro di noi c’è un’energia cosmica che ci sopravvive,
perché è divina. Ricordo la morte di mia madre Gilda: ebbi netta la sensazione
che il suo corpo diventasse pesante come marmo, mentre si liberava un flusso, l’energia
vitale. Sento che l’universo è attraversato da raggi sonori che arrivano fino a
noi; ed è la ragione per cui abbiamo la musica. I raggi sonori che hanno attraversato
Mozart sono infiniti».
Chi ha dato la migliore definizione della
musica?
«Dante. Paradiso, canto XIV: “E come giga e
arpa, in tempra tesa/ di molte corde, fa dolce tintinno/ a tal da cui la nota
non è intesa,/ così da’ lumi che lì m’apparinno/ s’accogliea per la croce una
melode/ che mi rapiva, sanza intender l’inno”. La musica è rapimento, non
comprensione. Critici musicali, tutti a casa! Non c’è niente da comprendere.
Come diceva Mozart, la musica più profonda è quella che è tra le note o dietro
le note».stica ma intima e delicata».
Come ha passato il lockdown?
«A studiare. La Missa Solemnis di Beethoven.
La mia prima partitura è del 1970. Ci lavoro da più di mezzo secolo, ma non ho
mai osato dirigerla. Lo farò ad agosto a Salisburgo. È la Cappella Sistina
della musica: la sola idea di accostarla mi ha sempre dato grande timore. Ci
sono dettagli di importanza enorme. Al Miserere nobis Beethoven premette un
“O”, che presuppone un interlocutore. Beethoven ha sentito che l’invocazione
era rivolta a Qualcuno. Pare un dettaglio, ma apre un mondo. Significa che un
Essere superiore esiste».
Quindi non è stato un brutto lockdown.
«A parte lo studio, è stato orribile. La
disumanizzazione si è fatta ancora più profonda. La mancanza di rapporti umani
è terrificante. Entri al ristorante e vedi al tavolo cinque persone tutte chine
sul loro smartphone... Io non lo posseggo e non lo voglio. Me ne hanno dovuto
dare uno, per entrare in Giappone, ma non sono riuscito ad accenderlo. La tv
avrebbe dovuto approfittare del lockdown per fare trasmissioni educative.
Invece, a parte qualche bel documentario, siamo stati invasi da virologi, da
sedicenti “scienziati”. Per me scienziato era Guglielmo Marconi!».
Non ama i talk-show?
«Riesco a seguire un contrappunto in otto
parti musicali che si intersecano una con l’altra, ma non riesco a capire due
persone che si parlano una sull’altra. Creano disarmonia, cacofonia; mentre
otto linee musicali una diversa dall’altra devono concorrere al raggiungimento
dell’armonia. La banalità della tv e della Rete, questo divertimento
superficiale, la mancanza di colloquio mi preoccupano molto per la formazione
dei giovani».
Lei è di destra o di sinistra?
«Né l’uno né l’altro. Sono tra quelli che
tentano di dare indicazioni utili. A Firenze negli anni 70 ero amico di molti
comunisti, tra cui Paolo Barile, il costituzionalista; ma siccome usavo spesso
parole come “patria” e mi piaceva eseguire l’inno di Mameli, qualcuno sentì
odore di idee di destra. Io sono nato uomo libero e tale rimango. Sono
cresciuto con dettami salveminiani, socialista non bolscevico. Non mi sono mai
affiliato a una congrega».
C’è un eccesso di politicamente corretto anche
nella musica?
«Con il Metoo, Da Ponte e Mozart finirebbero
in galera. Definiscono Bach, Beethoven, Schubert “musica colonialista”: come si
fa? Schubert poi era una persona dolcissima... C’è un movimento secondo cui,
nel preparare una stagione musicale, dovrebbe esserci un equilibrio tra uomini,
donne, colori di pelle diversi, transgender, in modo che tutte le questioni
sociali, etniche, genetiche siano rappresentate. Lo trovo molto strano. La
scelta va fatta in base al valore e al talento. Senza discriminazioni, in un
senso o nell’altro. Posso parlare perché la maggior parte dei
“Composers-in-Residence” che abbiamo ospitato in questi dieci anni a Chicago
sono donne».
È vero che da bambino pensavano che lei non
avesse talento?
«Papà mi regalò a Natale un violino. Piansi;
volevo un fucile con il tappo. Dopo due mesi di vani tentativi di leggere i
solfeggi, papà disse: “Il piccolo Riccardo non è portato per la musica”. Mamma
concluse: “Proviamo ancora un mese”. D’un tratto imparai a solfeggiare. Ma
l’incontro decisivo fu con Nino Rota».
Il compositore dei film di Fellini.
«Diedi con lui a Bari l’esame del quinto corso
di pianoforte da privatista: mi diede 10 e lode in tutte le prove. Così decisi
di iscrivermi al conservatorio. La mattina andavo al liceo, il pomeriggio prendevo
la corriera per Bari».
Per essere stanco della vita, lei è sempre in
giro.
«Credo nei viaggi dell’amicizia e della pace.
Non lavori per il successo, la quantità di applausi e articoli; lo fai perché
capisci che la nostra professione è una missione. Ho diretto il primo concerto
a Sarajevo dopo i bombardamenti, il Va’ pensiero a New York nel buco lasciato
dalle Torri Gemelle abbattute. Una sera ho diretto a Erevan, in Armenia, e la
sera dopo a Istanbul. Ricordo a Nairobi un coro di bambini meraviglioso:
avevano studiato il Va’ pensiero con una pronuncia assolutamente perfetta, mi
commuovo ancora se ci penso. Ma a volte mi sembra di parlare ai sordi. Muti che
parla ai sordi... Avvilente. Non è mancanza di volontà; è ignoranza atavica. E
dire che le radici della musica mondiale sono in Italia: Palestrina,
Monteverdi, Frescobaldi, Luca Marenzio, Scarlatti...».
Ha paura della morte?
«No. Da ragazzo andavamo la sera al cimitero a
vedere i fuochi fatui. Ho conosciuto l’ultima prefica, Giustina: raccontava i
pregi del morto, disteso sul letto nell’unica stanza della casa, la porta
aperta sulla strada, alle pareti la foto del fratello bersagliere e dello zio
ardito… Un mondo semplice e fantastico, che mi manca moltissimo. Per questo le
dico che appartengo a un’altra epoca. Oggi il mondo va così veloce, travolge
tutto, anche queste cose semplici, che sono di una profonda umanità...».
Quindi non teme la fine?
«Non in sé. Mi dispiace lasciare gli affetti.
Mia moglie, i miei figli Francesco, Chiara e Domenico, i nipoti. E gli
animali».
Quali animali?
«Il cane Cooper, un maltese. In campagna
abbiamo colombe, conigli, galline, galli, e due asini sardi, Gaetano e Lampo:
intelligentissimi. Si affezionano, ti guardano interrogativi con i loro occhi
rosa... E noi diamo del cane e dell’asino come se fossero insulti».
Come vorrebbe i suoi funerali?
«Scherzosamente dico che lascerò l’indicazione
di brani musicali da eseguire in chiesa attraverso incisioni, rigorosamente
dirette da me».
Perché?
«Non perché le ritenga le migliori; voglio che
si ricordino come dirigevo Mozart, Schubert, Brahms. Se non sono io, me ne
accorgo subito, e c’è la probabilità che si apra la bara... (Muti sorride). C’è
una cosa però su cui sono serissimo».
Quale?
«Ai miei funerali non voglio applausi. Sono
cresciuto in un mondo in cui ai funerali c’era un silenzio terrificante. Ognuno
era chiuso nel suo vero o falso dolore. Per i più abbienti c’era la banda che
eseguiva lo Stabat Mater di Rossini o marce funebri molfettesi, famose in
Puglia. I primi applausi li ricordo ai funerali di Totò e della Magnani, ma
erano riconoscimenti alla loro capacità di interpretare l’anima di Napoli, di
Roma, della nazione. Quando sarà il mio turno, vorrei che ci fosse il silenzio
assoluto. Se qualcuno applaude, giuro che torno a disturbarlo di notte, nei momenti
più intimi».
https://www.corriere.it/cronache/21_giugno_27/riccardo-muti-mi-sono-stancato-vita-direttori-gesticolano-studiano-poco-21e561d2-d6b0-11eb-94c4-73c6504e8d78.shtml
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