La voce di Paolo Virzì si
incrina, ma forse è solo rumore di fondo, stanchezza, tabacco, suggestione:
“Nel 1969, quando avevo cinque anni, mia madre Franca, una donna che ho molto
amato dal ciclo umorale già notevolmente accentuato, ebbe una disavventura gravissima.
Partorì un bambino senza vita, dopodiché impazzì. La mia confidenza con la
psichiatria viene da allora. Dall’essermi seduto vicino a lei durante le
interminabili ore trascorse nelle sale d’attesa, dall’averla accompagnata da
tanti medici, dall’averla vista passare dai brevi, fugaci stati di catatonia in
cui non si voleva nemmen alzar dal letto, alla perdurante euforia in cui anche
il passante per strada era qualcuno a cui voler bene. Mi incontravano e
indifferenti al mio imbarazzo mi dicevano: ‘Ho conosciuto la tu’ mamma’. Lo
dicevano ridendo perché lei era spudorata, mitomane, eccessiva e non di rado
attaccava bottone con gli sconosciuti. In una storia in cui c’è ovviamente
anche molto dolore, della meravigliosa follia di mia madre, mi ricordo soprattutto
la parte giocosa”. Sospetta, il regista livornese, che “alcuni disturbi siano
ereditari e sentendomi un po’ pazzo anch’io e avendo familiarità con quel
particolarissimo aspetto della natura umana, per certi versi, fungo da
calamita. Gli psicopatici vengono tutti da me, sentono terreno fertile”.
Nel magnifico La pazza
gioia, il suo dodicesimo film, sceneggiato per la prima volta con Francesca
Archibugi, si ride e si piange, come sempre. Commedia? Dramma? “I confini –
dice Virzì – sono labili. Non saprei raccontare una storia senza confondere gli
elementi e mi domando come mai si debba per forza scegliere una definizione
quando nella vita siamo spaventosi e ridicoli al tempo stesso”. Una casa di
cura chiamata Villa Biondi. Molti matti. Tanti medici. Qualche guardiano. Un
recinto. Una fuga. Due ragazze in viaggio verso un mondo più folle di loro. Poi
desideri, amicizia, amore, compassione, brutalità, mostri, debolezze, umorismo.
La cifra di Paolo Virzì,
erede legittimo tra abusivi e millantatori di una stagione del nostro cinema
rimpianta a ondate con rinnovata ipocrisia. Con i volti e le inconciliabili
biografie immaginarie di Micaela Ramazzotti (Donatella Morelli, una disgraziata
rapinata di figli, sogni e prospettive) e Valeria Bruni Tedeschi (Beatrice
Morandini Valdirana, una nobile rapidamente internata dalla famiglia che
vagheggia i lussi di un passato che non tornerà) Virzì è stato applaudito alla
Quinzaine e ha conquistato Cannes. Ora, in attesa dei prevedibili premi che
verranno, si appresta a replicare il trionfo francese con il pubblico italiano:
“L’idea era di fare un film leggero, libero, scatenato, avventuroso e anarchico
in Toscana affrontando un tema che mi sta a cuore. Io e Francesca volevamo
colorare di allegria due esistenze disperate, simili e diversissime tra loro”.
Crede di esserci riuscito?
Spero, l’accoglienza è
stata molto toccante. Sono contento di aver fatto incontrare queste due
attrici. Volevo vedere se dal loro sodalizio poteva nascere qualcosa di
selvaggio e anticonvenzionale.
Che salto è stato passare
dalla controllata Brianza delle ville de Il capitale umano al caos di Villa
Biondi ne La pazza gioia?
Venivo da un film più
freddo, controllato e narrativamente geometrico e volevo girare una storia
viscerale che accompagnasse abbracciando le nostre protagoniste al di là delle
loro cazzate, dei loro errori, delle loro conclamate imperfezioni.
Nel film recitano attori
professionisti e ragazze provenienti da veri centri specializzati nell’igiene
mentale. Che atmosfera si è creata sul set?
C’era un’aria da progetto
condiviso. Quando da Montecatini sono arrivate le ragazze che nella vita reale
stanno veramente in cura, sul set ha preso corpo un’allegria delirante. Era
alternata a momenti dolorosissimi, ma è stata quell’alternanza a far battere il
cuore del film.
Che risultato restituisce
una lavorazione così anomala?
Un sapore da buddy movie,
da canzonatura compassionevole, da Don Chisciotte e Sancho Panza fuori dal
tempo e senza regole. E poi stanchezza e felicità. In tutti credo. Ai miei
collaboratori, proprio come a Micaela e a Valeria, ho chiesto tantissimo.
Micaela Ramazzotti,
Donatella Morelli, è una sconfitta. Valeria Bruni Tedeschi, Beatrice Morandini
Valdirana, interpreta invece una contessa dai nobili principi: “I servitori,
che servano”.
La loro diversa estrazione
sociale è una delle chiavi del loro incontro. Donatella soffre e non vede il
domani. Beatrice invece guarda solo al recente ieri e alle tovaglie di fiandra.
Ma sono entrambe frustrate ed emarginate. Hanno voglia di allegria.
Prima evocava Don
Chisciotte e il suo scudiero. Il rapporto tra Ramazzotti e Bruni Tedeschi,
almeno inizialmente, non è paritario.
Guida Beatrice. Donatella
le va dietro per assecondarla, ma la teme. Sviluppano un rapporto, ma non sono
sicuro di poterlo chiamare amicizia. È una relazione bellicosa che prende il
via da una tipica dinamica tra padrone e schiavo. Poi lo schiavo si ribella
perché conosce la vita e le leggi della strada meglio dell’altra che vive in
una perenne invenzione mitomaniaca.
Nella figura di Valeria
Bruni Tedeschi aleggia in effetti il sospetto della mitomania.
Un po’ mitomane è. Ma da
dove vengono la sua alterigia e la sua prepotenza? Da un gravissimo problema di
autostima. La sua è come un pallone bucato: ha bisogno di soffiarci dentro per
non morire. Ma esattamente come a Donatella, a Beatrice non dà retta nessuno.
La madre la chiama “la deficiente”. A Villa Biondi le altre pazienti ascoltano
distrattamente i suoi vaniloqui e intanto le ridono dietro. C’è una sola cosa,
una sola frase che la fa essere felice.
Quale?
“Ti voglio bene”. Gliela
dicono sia l’autista del pulmino, quando dà in escandescenze, sia la
psicoterapeuta che la conosce meglio di chiunque altro. È una bella frase “ti
voglio bene”. A volte penso che in un mondo di odiatori di professione,
dovremmo provare a dirla tutti i giorni, soprattutto agli odiatori stessi. A
volte invece penso il contrario.
Ci parli del contrario.
Tutti a dire che Twitter e
Facebook sono sputifici a cielo aperto, covi di gente che non vede l’ora di
picchiare con la tastiera. Però, mi viene da dire, che continuino. Meno male
che esistono le tastiere. Forse se Olindo e Rosa avessero trollato il mondo a
forza di invettive, maiuscole e punti esclamativi, non avrebbero desiderato
vedere il sangue dei vicini.
Fuori dalla comune, in fuga
tra le gente, le due protagoniste incontrano un’Italia neorealista.
A un certo punto per
leggere l’immediato avvenire le due vanno dalla veggente, proprio come in Ladri
di biciclette. Me l’ha fatto notare Christian De Sica, io non ci avevo pensato.
Come in tutti i suoi film
non mancano ceffi e cialtroni descritti con un’attenzione che fa sospettare una
conoscenza diretta.
Sono cresciuto in un bel
cespuglio di trucidi. Nel mio quartiere, il Sorgenti-Corea di Livorno, c’era
gente capace di dire Vittorio Emanuele Re d’Italia e Imperatore di Etiopia con
un solo, singolo rutto o capaci di prenderti per il colletto e attaccarti al
muro con gli occhi fuori dalle orbite: “Ripetete, cosa gli fo io alle vostre
mamme?”. La meschinità della provincia la conosco bene. La gente che frequenta
il Seven apple, il locale in cui Micaela giovane balla sul cubo, anche.
Ci andava?
In comitiva, con gli amici,
a bordo del Ciao o del Bravo. Ad arrivare ci voleva più di un’ora. Una volta lì
trovavamo ragazze inarrivabili e un ganzume generalizzato che osservavamo nella
straziante inadeguatezza dei vent’anni.
Tra i ceffi di cui
parlavamo, spiccano Marco Messeri e Bobo Rondelli.
Messeri è un uomo
disperato. Uno che sognava di far strada nel mondo della musica con il Trio
uragano e che ti immagini in certi tinelli già cantati da Paolo Conte. Mi
piacerebbe farci uno spin-off sul Trio uragano. Lui, come Bobo Rondelli che con
perfido divertimento faccio pisciare da un balcone in testa a Valeria, sono
miserabili che non riesco a non guardare con compassione. Li canzono
compatendoli, che è la stessa cosa che faccio con me stesso, tutti i giorni.
Vorrebbe guardarli
diversamente?
Ho una temperatura un po’
ruvida nel guardare i sentimenti, me ne rendo conto. Mi piacerebbe essere più
elegante e garbato e accontentare i puristi, ma temo di non farcela ad
accontentare questi signori. Penso che raccontare significhi proprio
condividere e svelare le ragioni dei più stronzi e dei più beceri.
Vedendo La pazza gioia
sembra saper svelare anche quelli delle persone considerate clinicamente pazze.
Non credo nella redenzione
e neanche nella guarigione. Non so se la nostra malattia di vivere sia curabile
e se me lo chiedo, mi rispondo di no. Ma anche se sono tempi in cui prevalgono
paranoia e paura, non mi dispero. Le dicevo prima del mio Io matto. Mi sento
anch’io nel recinto ideale delle persone che occupano Villa Biondi. Ho il
grande privilegio di poter consumare questa mia parte nel lavoro. Per altri la
convivenza con la nostra metà più folle può essere difficile.
Tempi, diceva, in cui
prevalgono paranoia e paura.
Abbiamo avuto la scena
politica occupata per vent’anni dal miliardario grottesco e la sinistra
popolare, inibita, si è costruita un recinto di bellezze che escludeva l’uomo
comune. Era il tema di Ferie d’agosto, tema già superato. Oggi le cose sono
cambiate. C’è Trump, che grida: “Non dobbiamo vergognarci di essere egoisti, ma
pensare soltanto ai cazzi nostri”. È un discorso che mentre un pezzo di pianeta
preme alla porta e l’altro mezzo trema, insieme al mai tramontato richiamo
all’ordine, rischia di fare presa.
Uomo d’ordine era suo padre
Francesco, carabiniere.
Un uomo molto chiuso e
timido, di poche parole, non particolarmente affettuoso, ma innamoratissimo di
mia madre. Lavorava come un mulo. Usciva molto presto di mattina e rientrava a
casa a tarda sera.
Lei aveva il sogno del
cinema.
Sogno che in una città come
Livorno, giustamente, non mi perdonarono. Era un’ambizione eccessiva. Come
erano ambiziosi gli spettacoli teatrali in cui cospargendomi i capelli – allora
fluenti – di borotalco per sembrare vecchio facevo nei teatrini off. Con me
c’era anche Francesco Bruni.
Con Livorno si è
riconciliato?
Accadde con Ovosodo. E lì,
i fantasmi del passato, nonostante provassi a isolarmi, si riaffacciarono sul
set. Erano i sopravvissuti di quella grande strage rappresentata dall’eroina,
che venivano a trovarmi sul set. Quasi tutti i ragazzi del mio quartiere erano
morti di overdose, di solitudine o malattia. Ovosodo ricevette un premio a
Venezia e Livorno, che all’epoca aveva la squadra di calcio nei campionati
inferiori e non godeva neanche del relativo onore di essere nominata nelle
previsioni del tempo, mi trattò come un grande attaccante, come uno che era
tornato a far scrivere il nome della città sui giornali.
Dopo?
Negli anni quell’abbraccio
si è trasformato in aspettativa. Anche rabbiosa. Dopo Ovosodo tutti pensarono
che fosse giunta la loro occasione di essere raccontati da me. A casa
arrivarono decine di copioni. Mia madre pretendeva li girassi tutti: “E che ti
costa? Non fare l’importanzioso”.
Le prime esperienze di
regia?
Se escludo l’assistenza che
davo a mio cugino, fotografo di matrimoni, direi i primi piccoli spot per
Telegranducato. Cose ingenuissime, sgangherate, da registino. Benedetti
Elettronica Livorno, oppure “Ottica Mugnai, una questione di stile, solo in
Piazza Attias”. Quando feci il mio primo film, La bella vita, per dare vita al
presentatore televisivo Gerry Fumo mi ispirai a quell’epoca. Ai salottini dove
incontravo crooner di retroguardia, intrattenitori sfigati e soubrettine
locali.
Si spostò a Roma all’età di
vent’anni.
In una pensioncina in via
Marsala, divisa con le prostitute nigeriane. Loro fumavano erba. Io suonavo la
chitarra, cantavo Bob Marley e non avevo una lira in tasca. Un giorno a rompere
l’idillio arrivò un energumeno. Si presentò come fratello. Mi intimò di non
rompere più i coglioni alle sue sorelle.
Dove si trasferì?
Prima di una stanza al
Nuovo Salario, in appartamento con Francesca Neri, fendendo la città con la mia
127 giallo vomito, ci fu il tempo della pensione Sole. Io e altri tre allievi
del Centro Sperimentale a dividere una camera tra puzze di piedi e polli
arrosto divisi, anzi strappati democraticamente con le mani. Quella è un’epopea
comica che mi piacerebbe raccontare. Io ero un ragazzo che veniva dallo
sprofondo e mi portavo dietro un irrimediabile senso di goffaggine. Francesca
Marciano mi trascinava da Bertolucci. Era un universo che non capivo. Gli
ospiti sorseggiavano il thè. Il thè per me era qualcosa che si beveva solo
quando si era malati.
Il primo burbero maestro fu
Furio Scarpelli.
Era bello essere
maltrattato da Scarpelli. Per Furio era una maniera di dimostrarti il suo
amore. Con Age litigava quotidianamente. Poi la collaborazione finì e credo che
– oltre all’amore più mitico che reale per Livorno e alla pena che gli feci
perché tra tutti dovevo apparire il più indifeso – mi prese con lui soprattutto
per poter mandare di nuovo qualcuno a fare in culo.
Lezioni scarpelliane?
Tantissime. La più
importante fu che non dovevo aver paura di essere quel che ero, ma che al
contrario dovevo usare la mia natura per stare in mezzo agli altri. Accettare
se stessi è impossibile, ma seguii il consiglio e imparai a scagliare addosso
agli altri in maniera spavalda questa mia identità periferica in chiave
antiborghese e antifighetta. A quell’epoca sostenevo che il regista non
servisse a niente: “Per fare un film bastano una buona storia e un buon
attrezzista”. Polemizzavo con lo specifico filmico tanto irriso da Scola e me
la prendevo con i compagni di corso che fanatici, parlavano di lenti e sostenevano
che con la macchina da presa sarebbero andati persino a dormire.
Di quegli anni tra Livorno
e Roma c’è ancora qualche traccia?
Un incendio in una delle
tante case romane, quella di via Miani, bruciò tutto, comprese le mutande che
usavo per dormire. Sandro Veronesi che viene a offrirmi ricovero con una
coperta in mano me lo ricordo ancora.
Le dispiace?
Macché. Sono felice. Ogni
tanto ci vorrebbe un bell’incendio per tutti.
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/pensando-a-mia-madre-ho-raccontato-la-pazza-gioia-delle-vite-disperate/
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