Da Jfk a Capote. Le
principesse di Manhattan, «condannate» a competere
di Matteo Persivale
Lee e Jackie,
sorelle siamesi. Condannate dalla nascita a essere bellissime, ricchissime,
elegantissime, punto di riferimento irraggiungibile per le altre donne
«normali» a cui riservavano tutt’al più un benevolo sorriso. Venticinque anni
dopo Jackie Kennedy, è morta la sorella minore Lee Radziwill, 85 anni. Le
sorelle Bouvier: Jackie la più grande, bruna, pacata, Lee la più piccola,
bionda e ribelle. Figlie dell’agente di cambio «Black Jack» Bouvier, sosia di
Clark Gable, giocatore e bevitore e dongiovanni, l’uomo che le vaccinò sul
pronti-via, per sempre, dall’illusione che gli uomini non le avrebbero tradite,
prima o poi. Cresciute al 740 di Park Avenue, reggia dell’Upper East Side di
Manhattan. Condannate a essere attratte dagli stessi uomini: Lee fino alla
fine, anche dopo la morte di «Jax», si lagnava che «tutti ci hanno sempre visto
come sorelle siamesi». Cercò la sua identità con ferocia: dopo un primo
matrimonio archiviato, rispose alla mossa di Jackie — le nozze con il senatore
rampante, bello e donnaiolo che aveva bisogno di una moglie per sedare le voci
di dongiovannismo seriale — con un lampo di genio. Al futuro presidente trovato
dalla sorella replicò con un principe polacco, Stanislaw Radziwill, che le
regalo il titolo di «sua altezza serenissima» oltre a proprietà immobiliari che
l’avrebbero resa ricca anche dopo il divorzio.
Festaiola,
arredatrice per hobby e PR per passare il tempo, musa di Andy Warhol e amica
dei Rolling Stones che segui nello storico tour del 1972, jeans e piedi nudi e
camicie bianche di Charvet a fianco dei roadie in pelle e nera e delle groupie
seminude e delle carrettate di cocaina.
Da mamma Janet
ereditò come Jackie le buone maniere e la voce sottile patrizia da quartieri
alti di Manhattan — voce oggi malamente imitata da Ivanka Trump — ma
soprattutto ereditò l’allergia a giustificarsi. «Nella loro mente usano
entrambe il plurale maiestatis, come le regine», disse uno che le conosceva
bene, lo scrittore Truman Capote, il confidente al quale Lee raccontava tutto.
Lei gli regalò — quando Capote era al vertice della fama per «A sangue freddo»
— un portasigarette d’oro con dedica «A Truman, la mia preghiera esaudita». E
Capote chiamò proprio «Preghiere Esaudite» il libro in cui tradì le confidenze
delle sue amiche.
Lee ebbe modo di
vendicarsi, sbugiardando Capote in tribunale e facendogli perdere una causa da
un milione di dollari (primi anni ‘70) intentata da Gore Vidal, rovinando
Capote e aggiungendo la crudele postilla del commento, al New York Post, «una
disgustosa rissa tra froci», cosa che spezzo il cuore di Capote più del milione
perso.
Dopo il principe
polacco venne il regista hollywoodiano minore (Herbert Ross di «Provaci ancora
Sam») silenzioso e solvente, come piaceva a lei, libera di frequentare le
sfilate parigine della haute couture durante le quali ancora di recente
incantava per l’assoluta eleganza, il portamento glaciale, la bellezza tutelata
da lifting realizzati dai più costosi maestri del bisturi mondiale. La si
ammirava in prima fila alle sfilate di Giambattista Valli, di Saint Laurent,
monumento alla sua classe e a un’epoca che non c’è più, inorridita in modo
silente ma inequivocabile dalla volgarità delle influencer e dalla normalità di
tutte le altre invitate. Lee sorella siamese di Jackie, impegnata fino
all’ultimo minuto a dimostrare a papà Jack che la più bella, la più elegante,
era lei.
https://www.corriere.it/esteri/19_febbraio_17/lee-sorellina-ribelle-jackie-60cd4514-32fb-11e9-ab13-b1bad8396d5f.shtml#
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