Quei due erano accanto a un pianoforte già da bambini a Buenos Aires. Poi
ciascuno per la sua strada. Ma una vita dopo, rieccoli insieme a dar vita a
questo Schubert ultima maniera, fatto di niente eppur così pieno d’incantata
nostalgia: un temino come ritornello e una costellazione di episodi che
sembrano tracce sbiadite di memorie antiche. Questo emozionante regalo giunge
nel bel mezzo di una serata che si era aperta con l’affermativo Concerto n.1 di
Beethoven, dove le illuminazioni geniali e imprevedibili di lei — stupenda in
particolare la cantabilità pensosa del «Largo» — mettono alla prova la
reattività, o meglio la musicalità di lui a capo della Filarmonica. E che si
chiuderà con il Bruckner sospeso tra cupezza funebre e inedita «cordialità»
della Sinfonia n.7.
Nell’applauditissima serata che vede il ritorno alla Scala
del suo ultimo direttore musicale, Daniel Barenboim suona Bruckner, l’autore
della sua «prima volta» alla Scala, anni e anni fa. Per bene che lo conosca,
l’orchestra non è esemplare nell’assecondare il gesto di lui (soprattutto nei
raccordi tra una sezione e l’altra), che tuttavia ricrea da subito quel suono
che è specchio di una musicalità debordante e che è solo suo per profondità di
spessore, chiarezza della trama polifonica e maestosa solennità del passo
sinfonico.
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