Con un atto di superbia che non mi è
né consono nè abituale, asserisco che nulla mi interessa dei conservatori e
dei detrattori in riferimento alla
conteporaneizzazione della messa in scena delle opere liriche dei secoli
scorsi. Senza visione, curiosità e forte introspezione prospettica di ’analisi
del mondo che ci circonda, si resta ancorati a tempi che non tornano più e che
i più giovani non possono nemmeno più comprendere. La salvaguardia della trama
ed il profondo rispetto della scrittura sono sacri, ma EVVIVA a chi sa
analizzare, creare , amare, divulgare e magari anche far discutere! Ebbene dopo
aver visto la Turandot al Regio di Torino con la maestosa direzione orchestrale
di Gianandrea Noseda e la visionaria messa in scena di Stefano Poda, credo che si possano definitivamente mandare
in soffitta archetipi ammuffiti e
stereotipate convinzioni! Per chi non l’avesse capito …ne sono uscito stregato
! E non perché (come dice qualcuno) parteggio per gli amici, ma perché le opere
d’arte vanno riconosciute ed io non metto bende sugli occhi, paraorecchi e
cerniere chiuse alle labbra…. Ed in grande rispetto ho atteso qualche giorno
prima di trasferire le emozioni, per non cadere nella trappola dell’eccessivo
entusiasmo scatenatosi nell’immediato.
E per chi deve vedere per credere:
Turandot
Dramma lirico in tre atti e quattro quadri
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
dall'omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
dall'omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi
Musica di Giacomo Puccini
Versione originale incompiuta
Personaggi
|
Interpreti
|
La
principessa Turandot soprano
|
Rebeka Lokar
|
Il
principe ignoto (Calaf),
figlio di Timur tenore |
Jorge de
León
|
Liù,
giovane schiava soprano
|
Erika
Grimaldi
|
Timur, re
tartaro spodestato
basso |
In-Sung Sim |
L'imperatore
Altoum tenore
|
Antonello
Ceron
|
Ping, gran
cancelliere baritono
|
Marco Filippo
Romano
|
Pang, gran
provveditore tenore
|
Luca
Casalin
|
Pong, gran
cuciniere tenore
|
Mikeldi
Atxalandabaso
|
Un
mandarino baritono
|
Roberto
Abbondanza
|
Il
principe di Persia tenore
|
Joshua
Sanders
|
Seconda
ancella soprano
|
Manuela
Giacomini
|
|
|
Direttore
d'orchestra
|
Gianandrea
Noseda
|
Regia,
scene, costumi,
coreografia e luci |
Stefano Poda |
Regista
collaboratore
e assistente |
Paolo Giani Cei |
Maestro
dei cori
|
Claudio
Fenoglio
|
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Coro di voci bianche del Teatro Regio e del
Conservatorio "G. Verdi"
La sublimazione di Turandot è
avvenuta! Si, Turandot, Liù e tutti i personaggi della narrazione sono stati
sublimati e da uno status che tutti gli amanti dell’opera conoscevano, si è
passati ad un etereo livello impalpabile, ma tremendamente reale. Quando a dirigere è un ispirato
Gianandrea Noseda e la messa in scena è realizzata genialmente da Stefano Poda
ben poco resta da aggiungere, salvo voler essere cavillosi, pretestuosi e conservatori a tutti i costi!
Arcieri in bianco, il colore
dominante della scena insieme al nero, appaiono sul palco e vigorosa prorompe
la musica ed il primo livello di
beatidutine viene raggiunto.
Rebeka Lotar nel
ruolo del titolo si vede sottratto il finale, ma riesce comunque ad esprimere
la limpidezza del suono e la sicurezza nell’emissione. Liù commuove fino
all’ultima corda grazie alla voce di Erika
Grimaldi (cui il pubblico riserva il più ampio tributo): è poesia allo
stato puro, con modulazioni soffici e vellutate armonizzate da un forte
sentimento partecipativo ‘Signore ascolta...’
Jorge de Leon
cresce man mano che l’opera procede per giungere al ‘Nessun dorma’ del principe
ignoto con convinzione e gradevolezza. Timur è molto ben interpretato da In-Sung Sim che esprime una cifra notevole
per colore, autorevolezza e grazia. Antonello
Ceron è l’apprezzato Imperatore Altoum, parimenti a Roberto Abbondanza nel ruolo di un mandarino. Le tre maschere sono
interpretate da voci interessanti, anche Luca
Casalin per il quale hanno annunciato in apertura la non piena forma
vocale, ma che ben sa rendere Pang, come
Mikeldi Atxalandabaso nei panni di Pong; mi sento di spendere un
particolare positivo accenno a Marco
Filippo Romano che con sicurezza vocale e timbricità possente realizza Ping
con la giusta impronta portandolo con autorevolezza ad essere protagonista.
Validi tutti gli interpreti ed un
plauso al coro che ogni volta miracolosamente incanta, quindi un plauso anche
al direttore Claudio Fenoglio.
Gianandrea Noseda,
visibilmente soddisfatto canta tutta l’opera mentre la dirige con una
particolare dolcezza, votata alla totale sensibilità in un crescendo di
emozioni: se ancora serviva la prova che il maestro si attesta fra le stelle di
massima grandezza del firmamento musicale, dopo la direzione di Turandot, non se ne ha più bisogno! In sintonia epidermica con l’orchestra trae
echi di solennità imperiale che affascinano, quasi fosse la prima volta che
quei suoni si odono! Dalla buca e dal gesto di Noseda , si alzano emozioni
evocative dal sapore quasi intimisticamente religioso, di grande suspense e di
totale avvolgimento. L’atmosfera si fa a tratti rarefatta, complici la musica e
l’essenzialità delle scene del creatore Stefano
Poda, il quale con la collaborazione di Paolo Giani Cei ha curato regia, scene, luci, costumi e
coreografie. Le scene: il bianco è imperante e si replica anche nei costumi,
contaminati da qualche tratto di nero; anche le parrucche sono bianche ed anche
i succinti costumi che impediscono la nudità totale. A questo proposito
desidero sottolineare che l’utilizzo del nudo in questo caso è frutto di
ricerca ed indagine psicologica e di comunicazione; pur trattandosi di una
realizzazione sensuale risulta una delle più asessuate, per scelta registica
(vedi nota di regia riportata sotto). L’utilizzo del Butō con la
tenebrosità dei movimenti lenti ed improvvisamente convulsi e frenetici
affascinano e sorprendono sempre, così come è interessante la moltiplicazione
dei personaggi che muovendo la bocca paiono cantare all’unisono, rendendo
addirittura difficile l’individuazione dell’esatto punto di canto. Forte
l’immagine dei tavoli da obitorio con i cadaveri dei giovani decapitati per
ordine della ‘fredda’ Turandot e particolari le luci che la fanno da padrone
con suggestione ed avvolgente scelta. Della regia si può solo pensare a tutto il tempo che è stato necessario per
raggiungere una narrazione visionaria, che partendo dalla favola del Gozzi,
arriva al novecento e lo supera proiettandosi verso spazi indefiniti e forse
solo sognati.
La Musica vince sempre. Renzo
Bellardone
Carissimo
Stefano,
sono
rimasto talmente affascinato dalla tua messa in scena di Turandot, qui al
Teatro Regio di Torino, che spontanea sorge una domanda:
So che il
progetto è in toto condiviso con Gianandrea Noseda a cui tu riconosci ampio
merito nelle scelte coraggiose; in attesa dell’ultimo atto, mi i racconti del perché di alcune scelte, ad
esempio la moltiplicazione di alcuni personaggi ( e rifacendomi a Guido Gozzano
potrei dire che immilli i personaggi)? Grazie Stefano ed un applauso alla tua
realizzazione in attesa di un tuo ritorno in Italia ed a Torino a replicare
l’immaginifico concreto, che partendo da
Thais è arrivato a Turandot!
Vedi Renzo,
reca da sempre grande fascino il dibattito a proposito
delle ragioni che impedirono a Puccini di completare la sua ultima opera: c’è
chi adduce materialmente l’inquietudine dei primi sintomi della malattia, c’è
chi parte dal dato delle lettere in cui il compositore confessa i suoi dubbi
drammaturgici sul duetto finale, c’è chi analizza Turandot come un’eroina non
pucciniana, e quindi estranea all’ispirazione del maestro.
La verità, se non un insieme delle cause di cui sopra, forse è qualcosa che arriva da più lontano: Nel 1920 Puccini aveva esperito ogni forma di successo, era invecchiato oltre i sessant’anni (ricordiamo che Rossini smise di comporre trentottenne, mentre Verdi dopo i sessant’anni non compose che due titoli), aveva assistito alla Grande Guerra, e di sicuro sentiva il peso del tempo che avanzava inesorabile contro al suo modo di fare teatro, la violenza e la modernità del mondo di fronte all’universo intimo e fragile dei suoi personaggi prediletti.
Così, inspiegabilmente, si affida per la prima volta (ed ultima, inconsapevolmente) ad un libretto fiabesco, ad uno sfondo fantastico, mentre ogni vicenda da lui musicata era stata concreta, vivida, riconoscibile, popolata di figure che modellano perfettamente sentimenti realistici e concreti. Forse un modo per evadere, o per creare qualcosa di completamente nuovo, o per lasciarsi andare a forme musicali libere di esplorare una certa visionarietà evocativa possibile soltanto in un mondo indefinito: quello che resta ai posteri è il dato che per la sua ultima opera, Puccini ha scelto inconsapevole una forma unica nel suo repertorio; ad aumentarne ancora l’unicità, si aggiunge il fatto che ancor più inopinatamente la morte arrivò a separarlo dalla stesura del finale (ricordiamo che egli si portò le bozze in clinica a Bruxelles!).
Queste singolarità intrecciate sono già sufficienti - per un progetto drammaturgico - ad imporre di alzare lo sguardo più lontano rispetto alla vicenda di Turandot: il segreto di analisi di questa partitura non è accanirsi sul cortocircuito della trama, sulla storia d’amore irrisolta ed irrisolvibile, sul contenuto psicanalitico ermetico e desideroso di rimanere tale. Ogni tentativo in tal senso risulterebbe una vana ambizione interpretativa, un’idea intelligente forse ma facilmente rimpiazzabile da altre. No: la vera operazione che può ridonare alla Turandot pucciniana l’immenso valore che essa contiene, è finalmente considerarla come l’opera finale non solo della vita del maestro, non solo il corpo di un finale mozzo, ma come ultimo episodio della grande epopea dell’Opera italiana, cominciata quattro secoli prima con la Camerata de’ Bardi.
È così semplice da sembrare ardito scriverlo: Turandot è l’ultimo vero, grande melodramma italiano - almeno nelle forme nate nei secoli addietro e consacrate dal nostro ‘800. Dopo Turandot si continuerà a comporre immensamente, certo, ma in tutt’altra vena: anzi, soprattutto, si continuerà a riesumare ciclicamente il grande repertorio, in una perenne ed ossessiva rievocazione storica dei grandi titoli: da Mozart a Turandot, appunto, ogni anno nei cartelloni di tutto il mondo, come in un moto perpetuo. Un rito che attinge copiosamente da un bacino in fondo al quale si trova il non-finale di Turandot, incompiuto, come una morte prematura non solo dell’autore ma di tutto il repertorio classico.
In quest’ottica, il progetto drammaturgico non può che donare alla favola psicanalitica di Puccini una veste da finis epocae, un ambiente indefinito capace di accompagnare la vicenda alla non-fine, non alla fine, piuttosto alla Fine. Un mondo diafano che non vuole concludersi, un contenitore pulito e sereno di quanto di meglio l’Italia ha saputo dare all’Opera, in cui la vicenda dei personaggi sia un paradigma più vasto che spieghi non l’esistenza di principi e schiave, ma la vita e la vitalità di un genere antico che ancor oggi popola il mondo.
La morte di Liù commuove un coro che sembra la voce del mondo, un coro pentito che non vuole patire la punizione, non vuole che finisca la musica prima di aver avuto il tempo di piangere; ma - anche a musica finita prematuramente - ci si accorge che siamo arrivati ad un finale ma non alla fine, grazie all’incompiuta; siamo arrivati alla Fine che in realtà è un inizio, perché con quell’ultimo mi-bemolle è morta soltanto la piccola Liù, è finita la storia ma non la Storia, e tutta la mole del melodramma italiano s’è innalzata ancor più.
In quel silenzio si riassorbe una vicenda che non ha più bisogno di narratività: tutto diventa una immagine nella testa di Calàf, cioè dello spettatore, un viaggio etico nell’anima fra evocazioni che si susseguono. Turandot non esiste, non esiste che il Niente, l’idea della conquista dell’amore è un’ossessione di chi vive la vicenda e vede l’immagine della mèta riflessa in ogni dove, moltiplicata, illusoria, misteriosa, proprio come nello spirito del libretto del primo atto, dove Turandot è più un fantasma che una persona fisica. Nessuna, una, cento donne fatali in mezzo alle quali bisogna imparare a districarsi e a scegliere come dentro un labirinto… un’immagine anche delle mille sfaccettature che può assumere la relazione uomo-donna, uno dei mille lati da quali si può entrare nell’universo altrui.
Ecco, altro concetto fondamentale: l’Altro. Questa immagine della replica e della moltiplicazione serve anche a non restare nello schema pedissequo maschio-femmina, bensì ad allargare il campo d’indagine anche ad ogni forma di rapporto psicologico: uomo/donna, padre/figlio, madre/figlia, insomma ogni relazione di alterità.
Turandot è il simbolo del dolore dell’uscita da sé, del conflitto che causa la presa di coscienza dell’Alterità: appena usciti dal grembo materno ci rendiamo conto di non essere soli al mondo, di dover rapportarci con l’Altro, e forse un istinto primordiale ci ricorda a volte che gli Altri sono il male, che solo nella paradisiaca condizione uterina avevamo conosciuto la pace; Turandot è così, in conflitto col padre, con l’uomo, con le altre, con l’amore, con l’Altro. Ella è il paradigma di quanto ci costi uscire da noi, sacrificando la propria psiche: sul palcoscenico, il sacrificio è incarnato da Liù, che è la parte di noi che dobbiamo uccidere per poter crescere, da bambini, da adolescenti e in ogni piccolo o grande momento della nostra vita, e solo alla fine della messa in scena si capirà quanto il sacrificio di Liù porti la Donna ad uscire dal proprio personaggio.
Alla fine, quando la musica si fermerà, non avremo più Liù e Turandot, Calaf e Timur, ma il dolore e la comprensione ci avranno portato in una dimensione più lontana, come in una fase della vita in cui abbiamo ucciso una parte di noi ma siamo pronti a rinascere, un momento in cui tutto finisce per ricominciare: nel mistero dell’incompiuta, tutto muore senza finire.
La verità, se non un insieme delle cause di cui sopra, forse è qualcosa che arriva da più lontano: Nel 1920 Puccini aveva esperito ogni forma di successo, era invecchiato oltre i sessant’anni (ricordiamo che Rossini smise di comporre trentottenne, mentre Verdi dopo i sessant’anni non compose che due titoli), aveva assistito alla Grande Guerra, e di sicuro sentiva il peso del tempo che avanzava inesorabile contro al suo modo di fare teatro, la violenza e la modernità del mondo di fronte all’universo intimo e fragile dei suoi personaggi prediletti.
Così, inspiegabilmente, si affida per la prima volta (ed ultima, inconsapevolmente) ad un libretto fiabesco, ad uno sfondo fantastico, mentre ogni vicenda da lui musicata era stata concreta, vivida, riconoscibile, popolata di figure che modellano perfettamente sentimenti realistici e concreti. Forse un modo per evadere, o per creare qualcosa di completamente nuovo, o per lasciarsi andare a forme musicali libere di esplorare una certa visionarietà evocativa possibile soltanto in un mondo indefinito: quello che resta ai posteri è il dato che per la sua ultima opera, Puccini ha scelto inconsapevole una forma unica nel suo repertorio; ad aumentarne ancora l’unicità, si aggiunge il fatto che ancor più inopinatamente la morte arrivò a separarlo dalla stesura del finale (ricordiamo che egli si portò le bozze in clinica a Bruxelles!).
Queste singolarità intrecciate sono già sufficienti - per un progetto drammaturgico - ad imporre di alzare lo sguardo più lontano rispetto alla vicenda di Turandot: il segreto di analisi di questa partitura non è accanirsi sul cortocircuito della trama, sulla storia d’amore irrisolta ed irrisolvibile, sul contenuto psicanalitico ermetico e desideroso di rimanere tale. Ogni tentativo in tal senso risulterebbe una vana ambizione interpretativa, un’idea intelligente forse ma facilmente rimpiazzabile da altre. No: la vera operazione che può ridonare alla Turandot pucciniana l’immenso valore che essa contiene, è finalmente considerarla come l’opera finale non solo della vita del maestro, non solo il corpo di un finale mozzo, ma come ultimo episodio della grande epopea dell’Opera italiana, cominciata quattro secoli prima con la Camerata de’ Bardi.
È così semplice da sembrare ardito scriverlo: Turandot è l’ultimo vero, grande melodramma italiano - almeno nelle forme nate nei secoli addietro e consacrate dal nostro ‘800. Dopo Turandot si continuerà a comporre immensamente, certo, ma in tutt’altra vena: anzi, soprattutto, si continuerà a riesumare ciclicamente il grande repertorio, in una perenne ed ossessiva rievocazione storica dei grandi titoli: da Mozart a Turandot, appunto, ogni anno nei cartelloni di tutto il mondo, come in un moto perpetuo. Un rito che attinge copiosamente da un bacino in fondo al quale si trova il non-finale di Turandot, incompiuto, come una morte prematura non solo dell’autore ma di tutto il repertorio classico.
In quest’ottica, il progetto drammaturgico non può che donare alla favola psicanalitica di Puccini una veste da finis epocae, un ambiente indefinito capace di accompagnare la vicenda alla non-fine, non alla fine, piuttosto alla Fine. Un mondo diafano che non vuole concludersi, un contenitore pulito e sereno di quanto di meglio l’Italia ha saputo dare all’Opera, in cui la vicenda dei personaggi sia un paradigma più vasto che spieghi non l’esistenza di principi e schiave, ma la vita e la vitalità di un genere antico che ancor oggi popola il mondo.
La morte di Liù commuove un coro che sembra la voce del mondo, un coro pentito che non vuole patire la punizione, non vuole che finisca la musica prima di aver avuto il tempo di piangere; ma - anche a musica finita prematuramente - ci si accorge che siamo arrivati ad un finale ma non alla fine, grazie all’incompiuta; siamo arrivati alla Fine che in realtà è un inizio, perché con quell’ultimo mi-bemolle è morta soltanto la piccola Liù, è finita la storia ma non la Storia, e tutta la mole del melodramma italiano s’è innalzata ancor più.
In quel silenzio si riassorbe una vicenda che non ha più bisogno di narratività: tutto diventa una immagine nella testa di Calàf, cioè dello spettatore, un viaggio etico nell’anima fra evocazioni che si susseguono. Turandot non esiste, non esiste che il Niente, l’idea della conquista dell’amore è un’ossessione di chi vive la vicenda e vede l’immagine della mèta riflessa in ogni dove, moltiplicata, illusoria, misteriosa, proprio come nello spirito del libretto del primo atto, dove Turandot è più un fantasma che una persona fisica. Nessuna, una, cento donne fatali in mezzo alle quali bisogna imparare a districarsi e a scegliere come dentro un labirinto… un’immagine anche delle mille sfaccettature che può assumere la relazione uomo-donna, uno dei mille lati da quali si può entrare nell’universo altrui.
Ecco, altro concetto fondamentale: l’Altro. Questa immagine della replica e della moltiplicazione serve anche a non restare nello schema pedissequo maschio-femmina, bensì ad allargare il campo d’indagine anche ad ogni forma di rapporto psicologico: uomo/donna, padre/figlio, madre/figlia, insomma ogni relazione di alterità.
Turandot è il simbolo del dolore dell’uscita da sé, del conflitto che causa la presa di coscienza dell’Alterità: appena usciti dal grembo materno ci rendiamo conto di non essere soli al mondo, di dover rapportarci con l’Altro, e forse un istinto primordiale ci ricorda a volte che gli Altri sono il male, che solo nella paradisiaca condizione uterina avevamo conosciuto la pace; Turandot è così, in conflitto col padre, con l’uomo, con le altre, con l’amore, con l’Altro. Ella è il paradigma di quanto ci costi uscire da noi, sacrificando la propria psiche: sul palcoscenico, il sacrificio è incarnato da Liù, che è la parte di noi che dobbiamo uccidere per poter crescere, da bambini, da adolescenti e in ogni piccolo o grande momento della nostra vita, e solo alla fine della messa in scena si capirà quanto il sacrificio di Liù porti la Donna ad uscire dal proprio personaggio.
Alla fine, quando la musica si fermerà, non avremo più Liù e Turandot, Calaf e Timur, ma il dolore e la comprensione ci avranno portato in una dimensione più lontana, come in una fase della vita in cui abbiamo ucciso una parte di noi ma siamo pronti a rinascere, un momento in cui tutto finisce per ricominciare: nel mistero dell’incompiuta, tutto muore senza finire.
Stefano Poda
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