di Carmelo
Occhipinti
Un libro come The Game poteva benissimo uscire dalla penna di uno
scrittore americano. Oppure giapponese. O tedesco.
Dobbiamo renderne merito al suo autore. D’altronde lo dice lo
stesso Baricco che il «game» è una «una partita per tutti», dove ciò che conta
sono i numeri. E quando si hanno i numeri si vince. E Baricco vince, perché sa
raggiungere un pubblico sempre così vasto.
Nel «game», insomma, importante è esserci: americani, giapponesi,
tedeschi, italiani, tutti lì dentro sempre più numerosi, nella nuova grande
patria dell’umanità che sta diventando il web, dove le distanze culturali che
da sempre ci rendevano diversi finiscono per annullarsi, giacché tutti
diventiamo dei numeri.
Ma, dunque, quando Baricco si cimenta su argomenti di ‘storia’, lo
fa, per così dire, da cittadino del webpiuttosto che da studioso italiano,
quasi che la cultura italiana, l’identità italiana, la tradizione italiana
fossero ormai roba vecchia e superata: tant’è che sulle pagine di The Gamela
nostra povera Italia finisce per comparire solamente a proposito di quella
formazione politica che dovrebbe considerarsi come uno dei prodotti della cosiddetta
«insurrezione digitale», cioè il Movimento 5Stelle. Non mi sembra, poi, che di
Italia e di Italiani si dica molto altro dentro questo libro, che è un libro
che parla di noi, è vero: solo che noi potremmo benissimo essere americani,
giapponesi o tedeschi.
Eppure, nonostante il titolo, The Gameè scritto in lingua italiana
da uno scrittore che pure usa la sua lingua con una certa abilità, riuscendo
sempre particolarmente piacevole. Ma come capita a Baricco capita a tutti noi,
quando parliamo o quando scriviamo, di dimenticare che le parole di cui ci
serviamo vengono dal passato, talvolta anche da molto lontano, e che ciascuna
di esse ha una sua storia che faremmo bene, ogni tanto, a non ignorare,
soprattutto mentre stiamo impegnandoci a scrivere un libro: dato che senza quel
passato noi non ci saremmo, né saremmo come siamo, né penseremmo come pensiamo,
in modo così diverso, noi Italiani, da come pensano gli Americani, i Giapponesi
o i Tedeschi i quali, invero, parlano lingue diverse dalla nostra. Così anche
quando cerchiamo di descrivere la modernità nella quale siamo immersi fino al
collo, lo facciamo usando, senza avvedercene, parole ‘antiche’ alle quali
inevitabilmente corrispondono vere e proprie categorie mentali ereditate dal
nostro passato, che a loro volta condizionano, talvolta senza che ce ne
rendiamo conto, i nostri modi di fare storia, di guardare al rapporto tra
passato e presente.
Per provare a spiegare cosa voglio dire, ho bisogno di soffermarmi
sopra una delle parole più ricorrenti di tutto il libro di Baricco, che è
«rivoluzione». La si incontra soprattutto nella prima metà di The Gamein
riferimento alla «rivoluzione digitale». Nella seconda metà del libro viene
invece preferita l’espressione «insurrezione digitale», intesa «come processo
di liberazione e di rivolta collettiva» contro la cosiddetta cultura
novecentesca. In effetti, la tesi centrale di The Gameè che l’avvento della
nuova era del web– Google nasce, come Baricco ci ricorda, nel 1998 (p. 64) – ci
abbia liberati dal Novecento, in particolare da tutti i paradigmi mentali
appartenenti a un secolo che è stato uno dei più rovinosi della storia
dell’umanità: l’effetto di tale liberazione è stato talmente dirompente da
potersi paragonare a quello di una rivoluzione. La «rivoluzione digitale»,
vista come conseguenza di una «rivoluzione mentale» (p. 27) avrebbe dunque
travolto tutto ciò che c’era prima: è stato come assistere alla fine del mondo
(di quello vecchio, naturalmente), a una vera e propria «apocalisse culturale»
– detto a proposito di Twitter la cui nascita ha fatto sì che niente più fosse
com’era prima (p. 127) –. Del resto, la nozione stessa di «rivoluzione» implica
da sempre l’idea di una benefica distruzione del passato, di un violento
annullamento della storia: altrimenti non sarebbe possibile ripartire da un
nuovo inizio, in direzione di un mondo migliore, interamente rinnovato rispetto
ad un detestatissimo passato, spazzato via dalla rivoluzione.
A questo punto, però, io devo provare a richiamare la nostra
attenzione su ciò che solitamente tendiamo a non vedere. Sarebbe bene, per
riuscirci, immaginare di guardarci dal di fuori e da lontano.
Per il momento, dunque, mettiamo da parte The Game, su cui
ritorneremo tra qualche pagina.
Ecco. Noi Italiani abbiamo iniziato a credere nell’idea della
rivoluzione, invero da sempre estranea alla nostra mentalità, precisamente
all’inizio del XIX secolo – sono già più di duecento anni – da quando cioè si
impose fra di noi quel modo di pensare venuto dalla Francia, dove la Rivoluzione
si era fatta per davvero: quel modo di pensare secondo cui, cioè, per potere
rinnovare il mondo bisognasse distruggere il vecchio, dichiarare guerra al
passato, cancellare la storia, insomma ricominciare dall’inizio. (Nota bene:
prima di quegli eventi che sconvolsero la Francia alla fine del Settecento, il
termine «rivoluzione» serviva solo per descrivere il movimento ciclico dei
pianeti attorno al sole).
Non a caso – provo adesso a fare un esempio facile, perché tutti
possano seguirmi – furono gli scrittori francesi, proprio all’inizio
dell’Ottocento, i primi a parlare di un Caravaggio ‘rivoluzionario’, da loro
ritenuto tale perché capace, secondo il nuovo modo di pensare, di rinnegare
qualsivoglia maestro del passato nonché la storia tutta intera, e di tagliare i
ponti con le epoche precedenti per potere così intraprendere un cammino
completamente nuovo. Allora sull’esempio dei Francesi, a Ottocento ormai
inoltrato, gli Italiani credettero di riconoscere in un grande artista
contemporaneo com’era Antonio Canova un vero e proprio ‘rivoluzionario’,
apprezzandone cioè la capacità audacissima di rinnegare l’intera tradizione
italiana, da Michelangelo fino a tutta l’età barocca, così da rinnovare
radicalmente – in maniera, insomma, rivoluzionaria – il linguaggio della
scultura moderna. Vale la pena di insistere su un fatto: mai prima di allora,
in Italia, nessun artista era stato ritenuto grande per aver condannato il
passato e rinnegato la storia. Al contrario, si era sempre pensato che la
grandezza di qualsivoglia artista dovesse consistere nella capacità di guardare
all’insegnamento dei maestri, magari fino a superarli: come noi siamo abituati
a pensare almeno dai tempi di Dante, Giotto era diventato grande perché aveva
saputo guardare all’insegnamento di Cimabue per superarlo, fino poi a metterlo
in ombra. Ma senza Cimabue non ci sarebbe stato Giotto: questo è sempre stato
il nostro modo di pensare, e in ciò credo che sia consistita la forza che ha
inesauribilmente alimentato, in ogni epoca, la nostra creatività, e fondato la
nostra tradizione. E contraddistinto la nostra identità di Italiani.
Ma l’idea di rivoluzionare tutto, originatasi in seno a culture
straniere che pure avevano sempre ammirato e invidiato l’Italia, era destinata
ad attecchire ovunque, specialmente nel XX secolo, al tempo delle Avanguardie
storiche: era la convinzione che per poter guardare al secolo nuovo che si era
spalancato occorresse dimenticare il precedente, cancellandone la storia,
eliminandone i modelli di riferimento, abbattendone le strutture sociali e
politiche, ripartendo così dall’inizio per trovare, in certo qual modo, una
rinnovata verginità, un’idealizzata primitiva innocenza.
Alloratoccò ad un giovanissimo studioso italiano, Roberto Longhi,
rilanciare un mito che sarebbe stato caro a tutto il XX secolo: quello, cioè,
di un Caravaggio ‘rivoluzionario’, che rispondeva bene, mentre da noi
imperversavano i Futuristi, alla moderna infatuazione per il progresso; in
definitiva, non diversamente dai maestri dell’Avanguardia, a Caravaggio si
riconobbe il merito di aver azzerato il tempo, annullato il passato per
ricominciare dall’inizio, aprendo dunque il cammino nuovo della modernità. Un
simile modo di rivisitare il passato era perfettamente in linea con le esigenze
della cultura contemporanea.
Oggi però, a distanza di un secolo dal Futurismo, una simile
valutazione di Caravaggio appare datata, proprio perché basata sulla categoria
ormai desueta della ‘rivoluzione’: tant’è che preferiamo spiegare la grandezza
di Caravaggio in modo meglio rispondente alla sensibilità attuale, in
considerazione cioè del bisogno sempre più diffuso tra i nostri giovani di
ritrovare quelle radici che le tante rivoluzioni del Novecento ci hanno fatto
perdere, di recuperare quel senso storico di identità culturale che i tempi
truci in cui viviamo stanno finendo per dissolvere. Tant’è che ormai preferiamo
esaltare la grandezza di Caravaggio – convincendoci, altresì, di poter imparare
qualcosa dal suo esempio – col fare riferimento alla sua capacità di guardare
al passato, non solo verso la statuaria classica ma anche verso Leonardo,
Raffaello, Correggio, Michelangelo e Tiziano coi quali tutti il Merisi dovette
davvero porsi in competizione per trovare la forza di proiettarsi così
audacemente verso il futuro: la pensiamo, evidentemente, in modo del tutto
opposto rispetto al giovane Longhi proprio perché il paradigma mentale della
«rivoluzione», così specificamente novecentesco – proveniente da un mondo
diverso da quello in cui, dopo tante rivoluzioni, appunto, ci troviamo oggi a
vivere, poveri noi! –ci appare decrepito, inattuale, non più rispondente alla
sensibilità del nostro tempo.
Non è da meravigliarsi se oggi tra i più giovani non se ne trovi
più nessuno che si sogni di fare la ‘rivoluzione’, mentre invece alla
rivoluzione avevano creduto i nostri padri e i nostri nonni, i quali così tanta
fiducia avevano riposto nella modernità, nel progresso, nel futuro fino a
sacrificare la loro stessa vita per fare la guerra. Così, adesso, guardandoci
indietro, guardando a tanta loro fiducia nel futuro, nelle sorti magnifiche e
progressive, cosa vediamo? Vediamo niente altro che il progressivo
impoverimento del mondo! Il Novecento ci aveva ubriacati con questa idea della
rivoluzione: che significava dover sempre ripartire da zero, rimettere in
discussione l’intero passato, distruggere tutto, uccidere i giganti sulle cui
spalle guardavamo lontano per ridiventare nani e, dunque, incapaci di vedere
oltre il nostro presente.
D’altra parte, come ci insegna la storia, non c’è rivoluzione che
non significhi catastrofe e distruzione, che poi non richieda uno sforzo immane
di ricostruzione volto alla ricerca, tra le macerie fumanti del passato, di ciò
che di buono la rivoluzione intendeva portare.
Ora, è indubbio che la cosiddetta rivoluzione digitale voluta
anzitutto dagli ingegneri americani abbia cambiato il mondo. Ma non dobbiamo
sentirci costretti a ritenere che il mondo sia stato cambiato in meglio, solo
perché non vogliamo correre il rischio di sembrare retrivi.
Retrivo sarà Baricco! Perché il suo libro – torniamo, a questo
punto, sulle pagine di The Game– è tutto costruito su uno degli schemi mentali
novecenteschi più obsoleti, com’è quello della rivoluzione che cambia il mondo.
Addirittura, sulla scia di modi di pensare superatissimi, il paradigma della
‘rivoluzione’ serve a riattivare, nel testo di Baricco, una serie di metafore
belliche che invero discendono tutte, ma proprio direttamente, dalla cultura
novecentesca, se non persino da quella ottocentesca: a iniziare dalla nozione
di «avanguardia» (impostasi al tempo dei moti rivoluzionari del XIX secolo),
fino a quella di «guerra di resistenza», adoperata da Baricco in riferimento
alla guerra che si starebbe combattendo contro il «Game» (pp. 155 e 182), dove
– attenzione! – «resistenza» assume un valore negativo, giacché il «nemico» da
combattere non è certo il «Game» bensì – santo cielo! – la cultura del
Novecento (p. 173). In nome del «Game», quindi, occorrerebbe che tutti noi ci
unissimo in una vera e propria «lotta libertaria» (p. 313): ma quando Baricco
si riferisce – devo qui ritornare sulle stesse parole che citavo prima – alla
«insurrezione digitale come processo di liberazione e di rivolta collettiva»
(p. 106), io non posso fare a meno di ripensare a una certa, sgradevolissima
mentalità anni Sessanta che più estranea non potrebbe essere ai giovani che
stanno per vivere i loro vent’anni sulla soglia degli anni Venti. Che bella
«rivoluzione», che bella «insurrezione», che bel salto indietro di mezzo
secolo! Se pensiamo a certi Sessantottini che, a stento laureati, sono ancora
oggi al potere, appartenenti a una generazione che si è mangiata tutto, che ci
ha impoveriti fino a ridurre i nostri giovani – plurilaureati,
pluriaddottorati, plurispecializzati –, a doversi cercare un futuro fuori
dall’Italia, visto che l’Italia devastata da tante rivoluzioni, compresa quella
digitale, non ha da offrire loro niente di niente! Ma posso pure capire che i
Sessantottini, oggi decrepiti, abbiano trovato nel web una loro rinnovata
giovinezza!
Oh quale meravigliosa «apocalisse culturale» (p. 127)!
Questione di parole? Non credo proprio: perché alle parole
corrispondono i modi di pensare.
Ora, il mutamento epocale che Baricco ravvisa, a conseguenza dell’avvento
del web, a cavallo tra XX e XXI secolo, avrebbe secondo lui comportato – così
come succede dopo ogni rivoluzione che si rispetti – un totale azzeramento
della storia. Una cancellazione di tutto. Tutto che ricomincia dal niente. Un
mondo nuovo che nasce dalle rovine di quello vecchio, travolto dall’apocalisse.
Quasi da indurci davvero a ritenere che prima degli anni Ottanta, quando i
primi personal computersentrarono nelle nostre case, non vi fosse niente altro
che la preistoria, un mondo di primitivi, uomini analfabeti ancora da
civilizzare. In effetti la storia, come Baricco ce la racconta, cominciava
proprio da quegli Ibm, dai Commodore64, dai Mac… Ed è la storia che molti di
noi hanno vissuto, la storia degli ultimi decenni.
Ma questo schema mentale della rivoluzione che cancella la storia
mi sembra che sia molto limitante e molto dannoso, per diverse ragioni. Non
solo perché produce una così falsata percezione del presente, del passato e del
futuro. Ma anche perché spinge tutti noi a disprezzare le scuole, l’università,
i professori, gli umanisti. Addirittura Baricco – che ostenta disprezzo
profondo per l’intera categoria dei professori universitari – arriva a dire che
in futuro andare a scuola sarà sempre più inutile, visto – tra l’altro – che a scuola
si continua a raccontare una storia molto diversa da come la concepisce lui,
una storia vecchia, cioè, non più attraente agli occhi dei post-millennialsche
sono proiettati verso un futuro fantascientifico, dove gli uomini si
sposteranno via teletrasporto e, ridiventati animaletti innocenti, si
affideranno, anima e corpo, alla intelligenza artificiale.
Attenzione: il disprezzo per i professori e per l’accademia come
traspare da ogni pagina di The Gamenon è molto diverso dal disprezzo che i
nostri Futuristi nutrivano per le istituzioni, per la tradizione, per le
roccaforti del sapere, per i vati, i «sacerdoti», come li chiama Baricco.
In realtà, le cose potrebbero essere viste – e forse sarebbe meglio
vederle – in altro modo. Anzitutto il webnon chiude per niente il Novecento,
perché non c’è niente di più novecentesco del web(una volta Baricco se lo
lascia pure sfuggire, quando dice che Arpanet è nato nel pieno della Guerra
fredda, cioè negli anni Sessanta). La cosiddetta rivoluzione digitale di cui tutti
noi non facciamo altro che parlare non smantella proprio nessun paradigma
culturale novecentesco – il libro stesso di Baricco ne è la dimostrazione –, ma
per il semplicissimo fatto che essa si colloca lungo una linea fortissima di
continuità col secolo che ci siamo lasciati alle spalle, trascorso tutto
all’insegna della rivoluzione che mira a cancellare della storia. L’avvento del
webnon sarebbe altro che l’esito ultimo del Novecento, non un imprevisto, né un
incidente di percorso: siamo noi che, futuristicamente, abbiamo bisogno di
credere che stiamo vivendo una rivoluzione epocale. Una rivoluzione continua!
Il Novecento in realtà prosegue negli anni Duemila proprio grazie all’avvento
del web, che potrebbe considerarsi l’ultima rivoluzione del Novecento, l’ultimo
tentativo – ma in realtà uno dei tanti – di distruggere il mondo.
Ma se, poi, provassimo ad ascoltare i messaggi provenienti dagli
artisti contemporanei, specialmente quelli dell’ultima generazione i quali
sembrano interessati più al passato che al futuro, più alle radici che alla
fantascienza, ci accorgeremmo come anche il paradigma dell’«avanguardia» –
dell’arte come rottura – appaia ai loro occhi come ormai completamente
esaurito.
Tantissimi passaggi di The Gamenon convincono per niente, non solo
per via di questa sua impostazione che fa leva su schemi mentali che potevano
andar bene cento anni fa, in pieno Futurismo. Non convince tanta futuristica
fiducia per il webche, in quanto «democratico», ci renderebbe tutti liberi.
Baricco usa pure le lettere maiuscole per dire che «SI TRATTA DI INDIVIDUI»,
cioè «di tanti umani singoli, e questo, credetemi, non ha quasi precedenti» (p.
212). È vero che la caduta delle ideologie ha liberato le nostre menti, prima
asservite a certi schemi mentali, a certe categorie, a certi condizionamenti
politici…; ma arrivare a parlare di una presunta «ricostruzione dell’ego» (pp.
212-213) resa possibile grazie alwebmi pare proprio esagerato, tanto più se la
conclusione è questa: «l’unico caso precedente che mi viene in mente è, forse,
la democrazia ateniese del V secolo a.C., che era effettivamente una sorta di
regime di individualismo di massa […]» (p. 213). Diamine, sembra che a scrivere
queste cose sia un sanculotto, addirittura Robespierre in persona: non dimentichiamoci
che i rivoluzionari francesi idealizzarono la democrazia ateniese al punto da
credere di vederla resuscitata pure negli anni del Terrore. Ma buon per lui, se
crede veramente che la rivoluzione digitale abbia fatto rinascere nientemeno
che la democrazia ateniese!
Io non credo proprio che il ruolo dell’individuo – chiamiamolo pure
‘cittadino’ – sia diventato così centrale nella società contemporanea,
devastata com’è da questa interminabile crisi finanziaria di dimensioni
globali, che è strettamente legata alla perdita progressiva delle nostre
identità storiche. Non è che solo perché tutti hanno Facebook e postano video
su Youtube e twittano ogni cinque minuti, possiamo dirci liberi di
autodeterminare la nostra esistenza, di scegliere cosa fare della nostra vita,
schiacciati come siamo dall’oppressione del sistema che decide del nostro
futuro. Che fine ha fatto l’homo faberrinascimentale? A quanto sento dire dai
colleghi della Facoltà di Medicina, cui vorrei non credere, il volume medio del
cervello umano sta iniziando a decrescere: ma forse questa cosa potrebbe far
comodo a quei pochi uomini che saranno i futuri dominatori del mondo?
Insomma, quando Baricco parla entusiasticamente di questa ondata di
«individualismo di massa» che il webavrebbe reso così impetuosa, in realtà io
penso ad una specie di ritorno al medioevo: ma non al medioevo come lo
intendono gli storici del nostro tempo, cioè come quel momento fervidissimo di
elaborazione e di assimilazione culturale che è all’origine delle nostre civiltà
nazionali; bensì a un medioevo inteso come lo si intendeva in epoca
rinascimentale, cioè come periodo buio, di decadenza, di crisi, di
imbarbarimento. Così non posso fare a meno di ripensare al protagonista di
Soumissiondi Michel Houellebecq, quel professore esperto di Huysmans che ad un
certo punto sentì il desiderio di ritornare a visitare il convento medievale di
Rocamadour, dove gli capitò di trovarsi di fronte alla famosa Vergine Nera;
ebbene di fronte allo sguardo misterioso della Vergine Nera, capace ancora di
incutere nei suoi moderni osservatori sentimenti, appunto, di ‘sottomissione’,
egli prese piena consapevolezza di quel senso angoscioso di perdita di
identità, come se stessimo tutti noi ripiombando indietro fino a quelle lontane
età medievali, all’epoca in cui, cioè, i destini dell’umanità non lasciavano
alcuno spazio all’individuo: quando l’idea di una libertà individuale non era
neppure compresa, quando a essere condannato alla dannazione o a essere ammesso
alla gloria del paradiso era il popolo cristiano tutto intero, non il singolo
individuo.
Altro che democrazia ateniese del V secolo!
Dentro il gregge immenso di Facebook ognuno bela con la propria
voce: il risultato è un insieme di belati indistinti, dove magari qualche
pecorone ci sembra primeggiare sugli altri, perché emette un belato più forte,
più viscerale. Ma come facciamo a parlare di «individualismo» se stiamo
riducendoci a non avere identità, né memoria, né radici, né profondità? La
dittatura degli algoritmi ha bisogno di trasformarci tutti in un immenso gregge
di pecoroni. La nostra numerosità conta molto di più di ogni singolo belato.
Ma veniamo al mondo degli scrittori, che Baricco conosce bene. Oggi
la dittatura del sistema ha decretato che uno dei ‘letterati’ – diciamo così –
più affermati del momento è il bravissimo, amatissimo Francesco Totti. Ma
allora ci chiediamo dove siano finiti gli scrittori veri: quelli, voglio dire,
che si nutrono del dialogo assiduo con i grandi del passato e che, dunque,
ambiscono a essere ascoltati da qualcuno delle generazioni future, dato che le
presenti sono distratte da tutti questi rumori della rivoluzione? Magari gli
scrittori veri del nostro tempo saranno scoperti quando noi non ci saremo più,
quando i riflettori non saranno più puntati su un Francesco Totti o su un
Alessandro Baricco? La storia ci insegna invero che tanti grandi artisti,
quelli capaci di guardare al futuro, sono stati, da parte dei loro stessi
contemporanei, incompresi, talvolta ignorati oppure osteggiati (ripensate al
povero Caravaggio!).
Il fatto è che gli editori, che per non soccombere stanno tutti
prostituendosi alle leggi del sistema, preferiscono ignorarli, gli scrittori
veri! Persino Einaudi stampa ormai qualunque cosa, purché assicuri un certo
mercato: così The Gamesi pubblica solo perché il nome di Baricco di sicuro
vende. Ma io avevo un’idea diversa di Einaudi quando, qualche anno fa, i libri
che ne uscivano erano belli e curatissimi. Ora, purtroppo, mi devo ricredere.
Vogliamo parlare di quanto sia poco curato il testo di The Game? Ma i revisori
redazionali non potevano sistemaglielo meglio, prima di metterlo in circolazione?
Quanti refusi, sviste, incongruenze e contraddizioni: come nel caso in cui, per
fare esempio, si racconta del «momento di fondazione del Game» cioè di quando
esso «nacque», esattamente il 9 gennaio del 2007, giorno memorabile in cui
Steve Jobs presentò al mondo intero l’iPhone (p. 316); solo che due pagine dopo
si parla della «prima vera guerra di resistenza al Game» che «è stata
combattuta, pacificamente, negli anni ‘90» (p. 318). Cari redattori di Einaudi,
si vede che avevate fretta di pubblicare il libro! Ma diamine, pure con tutti i
soldi che vi siete presi, queste pagine sembrano scritte coi piedi! Potevate
riscriverle voi!
E che dire del raccontino della «rivoluzionaria postura fisica e
mentale» che il videogioco Space Invadersstabiliva negli anni Ottanta,
abituando tutti noi – c’ero anch’io! – a quel nuovo rapporto
uomo/consolle/schermo? Il raccontino mi sembra che rasenti la demenzialità: ma
esso è volutamente, ostentatamente demenziale, ed è un esempio mirabile di cosa
possa partorire quest’arte molto trendydello storytelling, che sarebbe l’arte
di dire senza avere niente da dire. I fautori dello storytellingsono del resto
i veri fanatici della rivoluzione perché pretendono di annullare millenni di
ars dicendi, screditando la storia della letteratura e, soprattutto, chi la
studia. Brucerebbero le università, sarebbero capaci di usare la ghigliottina.
Troppo facile – per dirne un’altra – parlare del rapporto
uomo-macchina fingendo che l’argomento sia vergine. Quando infatti Baricco si
mette a parlare di «OSSESSIONE PER IL MOVIMENTO» (usando, a p. 93, pure le
maiuscole), mi fa venire in mente quel signore coi baffi che si chiamava
Filippo Tommaso. Leggete queste infinitive e ditemi se non ho ragione: «tirare
giù tutti i muri… Demonizzare l’immobilità. Assumere il movimento come valore
primo, necessario, totemico, indiscutibile» (p. 95).
E qui veniamo al mondo dei professori, quei «sacerdoti» che Baricco
disprezza con tutte le sue forze, i «professoroni», come con disprezzo anche i
politici ignoranti che ci governano si riferiscono alle persone che studiano,
che fanno ricerca, che lavorano sui libri che sono stati scritti in tutte le
epoche del passato. Screditare così chi studia è un segnale, inequivocabile e
molto preoccupante, dell’imbarbarimento dei nostri tempi. Baricco arriva
addirittura a esultare perché oggi, grazie al web, i professori sembrano
«sull’orlo dell’estinzione» (p. 158). Buon per lui, se ci crede! Magari spera
che un giorno il loro posto sarà occupato da macchine parlanti? Oppure sogna
che Totti diventi ordinario di Letteratura italiana alla Sapienza? O insegnante
alla Scuola Holden? Ma lui ci crede davvero che «il parere di milioni di
incompetenti è più affidabile, se sei in grado di leggerlo, di quello di un
esperto»! Diderot riteneva affidabili i pareri degli incompetenti, ma non certo
più di quelli di un esperto.
Probabilmente Baricco crede che i professori di università, da lui
tanto screditati, siano com’erano ai suoi tempi? Sapesse quanti studiosi seri
esistono, molto più giovani di lui, trentenni e quarantenni che fanno ricerca,
che lavorano per rinnovare le discipline umanistiche aggiornandole sulle nuove
tecnologie, sulle digital humanities, e che non hanno tempo da perdere nei
social, perché probabilmente hanno bisogno di concentrazione, per potersi anche
dedicare alla lettura dei libri, che richiede tempi lenti che il webnon
permette. Per quello che mi riguarda – io sono uno storico dell’arte –, il
websta davvero cambiando la nostra percezione del passato artistico, e quindi
il nostro lavoro, dato che anche la storia dell’arte si fa – da sempre – per
rispondere a esigenze che appartengono al presente; così il modo di fare
ricerca, didattica, divulgazione sta già mutando per effetto, per esempio, di
nozioni nuove come quella di «immersività», di «performatività», di
«interattività»: nozioni nuove che, però, corrispondono a idee anche molto
antiche di cui varrebbe la pena fare la storia. Insomma, noi non vediamo nessun
conflitto tra cultura e web, tra passato e presente! Ma di quali professori
parla Baricco?
Ci siamo liberati dai regimi totalitari e dalle ideologie: ma siamo
sprofondati nel buio di un mondo controllato dal sistema, dove per potere
esistere dobbiamo accettare la mortificazione di seguirne le regole. Altrimenti
non siamo nessuno. È vero che nel websiamo liberi di andare dove vogliamo e di
pascerci di tutti i prodotti dell’ingegno umano che vi troviamo fagocitati,
musica, cinema, letteratura, pittura… Ma altro non siamo, oggi, che
sciacalletti e iene, e perciò continueremo a crederci il sale della terra,
mentre i giornalisti veri, gli studiosi veri, gli scrittori veri finiranno per
estinguersi fin tanto che le loro fatiche serviranno ad arricchire, grazie ai
proventi delle pubblicità, i soli proprietari dei siti internet: sciacalli!
Che sciocchezza, poi, dire che le opere d’arte pittorica, il teatro
e la musica erano prima privilegio di pochi, mentre ora, grazie al web, sono
diventate accessibili a tutti: qui sarebbe troppo complicato riassumere in
poche parole la storia del rapporto tra gli artisti e il pubblico lungo gli
ultimi secoli o lungo gli ultimi millenni, per spiegare perché l’arte è di
tutti da sempre, e non certo solo da quanto esiste il web. Ma se un mio
studente mi scrivesse sulle pagine della sua tesi di laurea che le opere d’arte
una volta «erano oltremondo [sic] cari, riservati a pochi privilegiati, lenti
nello srotolarsi, macchinosi nell’aprirsi…» (p. 304), lo pregherei di mettersi
a studiare, prima di scrivere cose così sballate. Va bene, sono cose sballate
che Baricco scrive fingendo di farsi interprete del punto di vista di un
post-millennial. Ma è un punto di vista sbagliato e questo va detto. Basta!
E va pure detto che mentre tutti siamo diventati così bravi a
navigare in internet, non ci accorgiamo di quanto stia alterandosi la nostra
percezione della storia, del tempo e dello spazio, di ciò che è vero e di ciò
che è fake, perché stiamo perdendo il senso storico delle parole che usiamo,
dell’ambiente in cui viviamo, delle opere d’arte che ci contentiamo di scrutare
sullo schermo del nostro pc, smaterializzate e private della loro originaria
fisicità, del loro contesto, della loro dimensione ‘tattile’: col risultato che
quando, finalmente, ci troviamo davanti a un’opera d’arte vera, magari dentro
un museo oppure in chiesa, ci sentiamo come smarriti, terrorizzati – proprio
come il personaggio di Soumissiondi fronte alla Vergine Nera di Rocamadour – da
quell’abissale distanza storica che sentiamo ormai separarci da quell’opera
d’arte. Allora invochiamo la mediazione di un «sacerdote», capace di tradurre
nella nostra lingua un linguaggio che non è più nostro.
Tanto più rassicurante starsene su Google a cercare le opere
d’arte!
Senza dubbio uno degli esiti più devastanti della rivoluzione
digitale è stata la sottomissione degli umanisti, soggiogati dagli ingegneri
che sono tuttora i dominatori del mondo: persino dentro le università gli
umanisti devono obbedire ai diktatdella burocrazia digitale che così gravemente
offendono la creatività, l’intelligenza, la dignità umana.
Non posso, dunque, che approvare queste parole di Baricco: «Fu
certamente la freddezza del loro sapere [scil.degli ingegneri], e talvolta una
sorta di ottusa insensibilità alle seduzioni dell’umano, che generò le
condizioni per virare così drasticamente verso un patto con le macchine» (p.
109).
Ma se mai il nostro mondo dovesse salvarsi dalla autodistruzione
che è in atto, ciò avverrà solo per merito degli umanisti: ogni volta che dico
queste parole, a lezione o tra gli amici, ricevo segni di approvazione. Come e
quando avverrà – se mai avverrà – una vera riscossa degli umanisti non so
dirlo. Io ho l’impressione che qualcosa stia già muovendosi. Ma sono sicuro che
il libro di Baricco rispecchi la mentalità diffusa e distorta che purtroppo
imperversa, da cui dobbiamo fuggire, specie per come intende lui le
«contemporary humanities»… Perché a salvare il mondo sarà la scuola. Saranno le
università, che sono le vere scuole di scrittura. E dove, intanto, sta per
arrivare l’esercito dei post-millennials. Cambieranno molte cose. Vedremo!
Carmelo Occhipinti
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