ALBERTO MATTIOLI
ROMA
Cecilia Bartoli e Antonio
Pappano venerdì all’Auditorium di Roma (foto Riccardo Musacchio & Flavio
Ianniello
Iniziamo dalle cose serie:
gli abiti. Allora, venerdì, per il Gala Mozart all’Auditorium di Roma, due
toilettes: un tailleur pantalone maschile con tre camicione a balze effetto
Settecento (prima blu, poi bianca e infine rossa) e un vestito verde con gonna
molto ampia, anche questo vagamente dixhuitième, ma decisamente femminile. Il
primo, indossato per cantare il mottetto «Exultate, jubilate» e la prima aria
di Sesto dalla «Clemenza di Tito», cioè due brani scritti per castrati. Il
secondo, per il recitativo e rondò «Ch’io mi scordi di te», meravigliosa aria
da concerto scritta per Nancy Storace, anzi, come Amadé nota nel suo catalogo
personale, «per M.lle Storace e per me», dato che l’Autore si riservò un
bellissimo obbligato di pianoforte.
Ecco una primadonna che fa
della filologia quando si veste, e figuriamoci quando canta. Ma Cecilia Bartoli
è così: non lascia nulla al caso. In più, ha quell’indefinibile quid che
trasforma un concerto in un one woman show. Fatto sta che basta che entri,
saluti, ammicchi, canti tre note e si è già messa il pubblico in tasca. Si
chiama carisma, e potremmo anche chiuderla lì. Del resto, le ovazioni e i
bouquet di fiori e le urla e insomma tutto l’atteso tripudio parlano da soli.
Smaltita l’emozione, però,
bisogna anche ragionare un po’ su questo strano concerto per diva, Coro e
Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia diretti da sir Antonio Pappano nel
261esimo compleanno del Nostro, con un programma spezzatino tutto pezzetti e
pezzettini, arie da opere, estratti di musica sacra, singoli movimenti di
sinfonie e concerti, quasi da «accademia» dell’epoca o da «greatest hits»
discografiche.
La Bartoli è ancora la
Bartoli. Il volume, si sa, non è mai stato il suo forte e attualmente (anche
dopo un’«Alcina» ascoltata a Zurigo all’inizio dell’anno) si è forse anche
affievolito, benché poi la voce sia proiettata così bene da «correre» anche in
una sala non piccola come quella di Roma. Aggiungerei una certa cautela nel
salire agli acuti, mentre le agilità in tempi rapidi sono tuttora spericolate e
fulminanti, gli effetti d’eco bellissimi, il fraseggio sempre fantasioso, la
musicalità eccezionale.
Ma, soprattutto, la Bartoli
non ha perso, anzi se possibile ha ancora affinato, la più intrigante (e meno
italiana, il che spiega forse perché paradossalmente in Italia piaccia meno che
nel resto del mondo) delle sue qualità: la bravura nel giocare con il colore
della voce. Non si tratta solo della dinamica amplissima, dal forte al
pianissimo e ritorno. Il punto è che la Bartoli è capace di inventarsi un suono
diverso per ogni nota e per ogni parola, dando loro un’espressività del tutto
insolita. È difficile da spiegare, ma si può fare un esempio per tutti: nel
recitativo del mottetto, alla frase «et jucundi aurorae fortunatae»
superCecilia s’inventa improvvisamente un pianissimo che non è solo etereo, ma
magicamente cambia il colore della voce e prende così un sapore arcadico e
solare, stupendo. Ora, questo davvero si chiama «recitar cantando», tutto sulla
parola, tutto al servizio del teatro (Mozart fa teatro anche in chiesa) e ci
riporta alle origini dell’opera e al perché la amiamo. Certo, il confine con il
birignao è molto vicino, però la Bartoli non lo varca mai. Il suo è un gusto
carico, giustamente melodrammatico, ma non è cattivo gusto. Dà a ogni sua
interpretazione un’intensità particolare. E spiega perché la fama planetaria
sia meritata e perché ogni sua apparizione diventi un evento.
Quanto al resto, bravo
Pappano a non farsi schiacciare, a dirigere una sinfonia «Parigi» energetica
come uno zabaione appena sbattuto e anche a suonare il ricordato obbligato di
pianoforte (con un cantabile giustamente già preromantico: siamo nel 1786, e il
giovane Werther non era giù più giovane). Coro splendido con un «Ave Verum» da
antologia. Quanto a Santa Cecilia, intendo l’altra, l’orchestra, si conferma a
ogni ascolto la migliore in Italia e una delle migliori d’Europa. A parte il
flauto di Carlo Tamponi e l’arpa di Cinzia Maurixio, inappuntabili
nell’andantino del K299, chapeau al primo violino Roberto González-Monjas:
trascinante.
http://www.lastampa.it/2017/01/28/spettacoli/palcoscenico/bartoli-e-pappano-mozart-al-quadrato-4lPrBLst1AuSXhrq9sB7bK/pagina.html
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