Luca Chierici il 17 gennaio
2017/Nessun commento
di Luca Chierici foto ©
Brescia & Amisano
PRESENTANDOSI nuovamente al
pubblico milanese della Scala, dopo un periodo di riposo dovuto al recupero di
non felici condizioni fisiche, Pollini ha scelto di ritornare dopo tanto tempo
all’amato Schönberg, di cui ha eseguito i Klavierstücke op. 11 e op. 19. Sono
questi due testi che hanno rappresentato una svolta radicale nel pianismo del
primo Novecento e che per lungo tempo hanno rappresentato una scelta d’obbligo
solamente per pochi iniziati. È da tutti giustamente riconosciuto il fatto che
Pollini sia stato negli anni Settanta non proprio uno scopritore dell’opera
omnia pianistica schoenberghiana – che sta tutta in un disco da lui inciso nel
1975 – ma senz’altro il pianista di grande successo che ha imposto
definitivamente il nome della figura carismatica della seconda Scuola di Vienna
nel comune repertorio concertistico. La perentorietà della proposta di allora
si è felicemente attenuata verso il recupero di una certa vena nostalgica che
accomuna questi pezzi schoenberghiani ai tardi Klavierstücke di Brahms (altro
raggiungimento assoluto nel repertorio del pianista milanese). In questo senso
l’esecuzione di Pollini ci faceva pensare a una continuità nei confronti del
passato piuttosto che a una dichiarazione di rottura, e ci ricordava come un
compositore d’avanguardia non così radicale, e allo stesso tempo immenso
pianista – Ferruccio Busoni – avesse pubblicato una “versione da concerto” dei
Klavierstücke op. 11 smussando certe asperità puramente attinenti alla
scrittura per il pianoforte.
Dalla seconda alla prima
Scuola di Vienna il passaggio era quasi obbligato, e Pollini ha scelto in
questo caso tre sonate da lui affrontate per la prima volta in tempi
differenti. La Patetica venne da lui eseguita in pubblico per le prime volte
alla fine degli anni Ottanta, e già allora non convinceva del tutto per la
troppo spiccata post-datazione: la Sonata in do minore risale al 1798-99 e in
essa è comunque presente un coté settecentesco che esce allo scoperto nel
finale ma anche in alcuni passaggi veloci nel primo movimento. Certo la
disposizione pianistica dell’Adagio è già pienamente ottocentesca, si direbbe a
tratti brahmsiana. Ma Pollini, con minore maestria digitale di un tempo, ha
insistito nell’eccessiva drammatizzazione dei contenuti di tutta l’opera 13,
cercando nei fatti di contraddire il famoso pensiero di Busoni, secondo il
quale il musicista di Bonn là dove ricordava Mozart (il Mozart della grande
sonata e della relativa Fantasia in do minore, in questo caso) era addirittura
“insignificante e plagiario”.
Nella sua ricerca sul
penultimo Beethoven, e per portarsi avanti verso il traguardo di una integrale
beethoveniana faticosamente raggiunta nell’arco di quasi quaranta anni, Pollini
aveva presentato in pubblico poco prima (alla Scala nel 1986) la Sonata in fa#
maggiore op. 78 che la tradizione vuole legata al nome di Therese von
Brunswick, forse la figura femminile con la quale il musicista aveva stretto il
legame spirituale più intenso. Anche in quel caso la lettura di Pollini fu
molto provocante e ne uscì fuori un discorso scintillante di preziosismi
pianistici e di espressività incontenibile, complice una scelta di tempi più
veloce del solito. A quell’idea Pollini è stato fedele anche in quest’ultimo
appuntamento con il pubblico, così come è stato fedele alla bruciante visione
di una Appassionata anch’essa proiettata in un luogo dove il tempo non scorre
secondo parametri rigidi e dove non si discute nemmeno se possa esistere una
minima parentela tra questo capolavoro e le moltissime sonate nella stessa tonalità
– nella tradizione classica legata a sentimenti di passione sofferta,
patetismo, persino di cordoglio funebre – scritte da compositori coevi. Dal
punto di vista strettamente manuale l’Appassionata è da sempre stata un cavallo
di battaglia del pianista milanese e anche questa volta l’esecuzione
dell’intera sonata e l’accumulazione del furore espressivo nel finale ha
portato il pubblico ad esternare una vera e propria ovazione al termine di una
prova tuttora ammirevole sotto il profilo tecnico oltre che espressivo.
Bellissimo l’Andante e davvero istruttivo il primo movimento, dove il pianista
ha dimostrato ancora come un fattore apparentemente tecnico-strutturale – lo
“sviluppo” del secondo tema – esprima sotto le sue dita anche un evidente
significato di espansione delle emozioni.
Come di consueto, Pollini
ha offerto dei bis rigorosamente appartenenti agli autori in programma, o
meglio, in questo caso, all’autore che nel programma occupava la parte più
cospicua. Due Bagatelle beethoveniane dall’op. 126, anch’esse da sempre nelle
corde e nel repertorio del pianista hanno assicurato il felice commiato dal
pubblico.
L'autore: Luca Chierici
Nato a Milano nel 1954,
dopo la maturità classica e gli studi di pianoforte e teoria si è laureato in
Fisica. Critico musicale per Popolare Network dal 1978 e per Il Corriere
Musicale dal 2012, è autore di numerosi articoli di critica discografica e
musicale, di storia della musica e musicologia, programmi di sala e note di lp
e cd per importanti riviste di settore e case discografiche. Ha condotto Il
terzo anello per Radiotre e ha implementato il data base musicale per Radio
Classica. Ha pubblicato per Skira i volumi dedicati a Beethoven, Chopin e Ravel
nella collana di Storia della Musica. Ha collaborato alla Guida alla musica
sinfonica edita da Zecchini e ha tenuto diversi cicli di lezioni di Storia
della musica presso alcuni licei milanesi. Appassionato di tecnologia, ha
formato nel corso degli anni una biblioteca digitale di quasi 110.000 spartiti
e una collezione di oltre 70000 registrazioni live. Nel 2007-2008 ha
collaborato al progetto di digitalizzazione degli spartiti della Biblioteca del
Conservatorio di Milano.Dal 2006 collabora alla popolazione del database della
Petrucci Library (www.imslp.org).Dal 2014 è membro della Associazione nazionale
Critici musicali.
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