Tre ricordi degli
anni giovanili e un’invenzione narrativa a delineare, intorno alla casa di
campagna dei nonni, un’idea di felicità.
Le vacanze alla
casina
Ricordi chiusi a
chiave
La guerra al
medioevo
Il topotappo e altri
topi
Il volume è stato
presentato in anteprima alla Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria Più
libri più liberi (Roma, 5-9 dicembre 2018).
Insoliti ignoti nella casina di campagna
Nonno aveva portato
in campagna la scrivania che un tempo teneva nel suo «scagno» in paese. Era
stato un grosso commerciante di zolfi e quella maestosa scrivania aveva
rappresentato il simbolo della sua ricchezza.
Aveva un rialzo che,
partendosi dal piano di scrittura, si sollevava per un metro e mezzo ed era
composto da diecine di cassettini pieni, allora per me, di meraviglie:
ceralacca, timbri, spille, francobolli, marche da bollo.
A destra e a
sinistra del vano dove s’infilavano le gambe, c’erano tre grossi cassetti per
parte sempre chiusi a chiave. Ma un altro cassetto, il più importante, era
quello di centro, proprio sotto al piano di scrittura. Anche questo era sempre
chiuso a chiave.
Là dentro nonno
conservava conti, ricevute, libri mastri e soprattutto il denaro che gli
occorreva per i lavori di campagna.
Era un uomo ordinato
e preciso e perciò il denaro lo suddivideva dentro tante scatolette di cartone
senza coperchio: le monete in cinque o sei scatoline a seconda del loro valore;
una sola, più grande delle altre, conteneva le banconote.
Un’estate il nonno,
che era solitamente assai gentile con tutti, cominciò a mostrarsi un pochino
nervoso. Parlava poco, rispondeva di malavoglia. Ce ne accorgemmo e pensammo
che non stesse tanto bene in salute.
Un giorno, a tavola,
nonna gli domandò: «Ma si può sapere che hai? Stai male? Vuoi che faccia venire
Gino?». Gino era lo zio medico.
«Qua non c’è bisogno
di un dottore, ma di un carabiniere» rispose nonno. Naturalmente, restammo
tutti perplessi. Che voleva dire? Lo seppi qualche giorno dopo, quando mi
chiamò nel suo studio.
«Entra, chiudi la
porta e siediti». Aveva un tono di voce severo.
«Parliamo da uomo a
uomo. Tu» mi disse «sei sempre stato un picciotto leale. E perciò da te voglio
una risposta sincera. D’accordo?».
«Sì, nonno».
«Sei tu che l’apri?»
mi domandò indicandomi il cassetto centrale.
«Io? E perché dovrei
aprirlo?» risposi veramente sorpreso dalla domanda.
«Se mi dici che non
sei stato tu, ti credo» fece guardandomi negli occhi.
«Ti giuro, nonno,
che…».
«Non giurare, puoi
andare».
Corsi da nonna, con
la quale avevo molta confidenza. «Perché mi ha domandato se avevo aperto il
cassetto?». «Perché gli spariscono i soldi di carta». «E pensa che possa essere
stato io?!». Mi sentii profondamente offeso, mi venne da piangere. Mia nonna mi
consolò come meglio poté, ma io mi portai a lungo dentro una specie di
risentimento verso di lui. Per una settimana non volli accompagnarlo nella
passeggiata che ogni giorno si faceva al tramonto.
Zio Massimo cambiò
la serratura del cassetto e consegnò solennemente le nuove chiavi a nonno. Il
problema sembrò risolto.
Ma tre giorni
appresso, a tavola, nonno era nuovamente d’umore nero. Appena le cameriere, la
gnà Filippa e sua figlia Grazia, portarono il primo piatto, alzò una mano e
disse: «Sentitemi bene. Avevo cinque fogli da cento lire nel cassetto.
Stamattina, aprendolo, non ne ho trovato manco uno». Fece una pausa e aggiunse:
«Non voglio dare la colpa a nessuno. Ma il fatto è questo: qualcuno di voi mi
ruba i soldi. Oggi dopo pranzo tu, Massimo, vai a chiamare i carabinieri.
Continuate a mangiare. Io non ne ho voglia».
Si alzò e se ne andò
nella sua camera da letto. Ci sentimmo tutti colpevoli. Calammo la testa sui
piatti, ma nessuno osò cominciare a mangiare.
«Ma come?!» fece
stupito e irritato zio Massimo rompendo il pesante silenzio. «Anche con la
nuova serratura?». Si alzò di scatto, dicendo alle cameriere: «Venite a darmi
una mano». Naturalmente gli andammo tutti dietro. Con l’aiuto delle due donne,
lo zio spostò la pesantissima scrivania che praticamente copriva tutta una
parete dello studio.
Già mentre la
spostavano, cadde a terra, svolazzando, una banconota da cento ch’era rimasta
incastrata nel retro. E subito dopo ne scorgemmo un’altra, accartocciata,
infilata per metà dentro a un buco nel pavimento, fino ad allora rimasto del
tutto coperto dall’imponente scrivania.
Allora non avemmo
più dubbi: erano topi, i ladri. Entravano da dietro, approfittando di un
piccolo spazio tra il cassetto e il piano del tavolo, rubavano le belle
banconote profumate (per loro) di grasso e sudore, e se ne scappavano per la
stessa strada.
Ma che se ne
facevano?
Senza dire una
parola, lo zio uscì dallo studio, scese le scale di corsa, aprì la porticina
della cantina, sempre seguito da tutti noi, entrò, si fermò, guardò in alto
come per orientarsi e poi si diresse verso le botti che stavano poggiate in
fila sopra due lunghissime travi parallele, a loro volta sorrette da colonnine
di cemento.
S’infilò in mezzo
alle due travi e si chinò a guardare sotto all’ultima botte. Lo sentimmo
cominciare a ridere, sempre più forte.
Poi si rialzò,
scavalcò la trave e ci disse: «Andate a vedere. Io vado a dirlo a papà». Non
resistetti alla curiosità. Precedendo tutti, m’infilai in mezzo alle travi e
guardai sotto alla botte.
C’erano tre nidi di
topi, tutti fatti usando le banconote di nonno.
Ogni nido poggiava
su alcuni fogli intatti, che, disposti l’uno sull’altro, ne costituivano la
base. Sopra di essa, i resti di altre banconote, appena riconoscibili perché
tutte finemente triturate, formavano un soffice lettino per i neonati.
http://www.vigata.org/bibliografia/lacasinadicampagna.shtml
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