Il 10 aprile compie
80 anni un maestro della letteratura mitteleuropea. Che si racconta
E da oggi con il
«Corriere», «Danubio», primo volume della serie a lui dedicata
di CRISTINA TAGLIETTI
Claudio Magris
(Trieste, 10 aprile 1939) in uno scatto di Danilo De Marco. Il fotografo e lo
scrittore sono legati da una intensa amicizia che dura da trent’anni
Il 10 aprile Claudio
Magris compie 80 anni, anche se da piccolo pregò suo padre di poter festeggiare
il 9. «Lui mi rispose: se proprio vuoi, ma posso sapere perché? E io: perché il
9 aprile 1863, ad Appomattox, in Virginia, Abramo Lincoln ha dichiarato liberi
gli schiavi neri. Sembravo Enjolras, disse poi, quando, nei Miserabili,
proclama: cittadino, mia madre è la Repubblica!».
La copertina del
primo volume della collana delle opere di Claudio Magris, «Danubio»
Sorride Magris
seduto su una poltrona nel suo studio di Trieste. Intorno libri, quadri, un
crocifisso in legno di ulivo di Mauro Corona («è un bravissimo scultore»), il
manifesto di un omaggio spagnolo a Marisa Madieri, la prima moglie molto amata,
fine scrittrice scomparsa nel 1996, ritratta da Franco Giraldi. L’ironia, anche
su sé stesso, viene subito incontro parlando con questo grande scrittore vitale
e appassionato, germanista, viaggiatore irrequieto con il baricentro nella sua
Trieste che esibisce con orgoglio («Che cielo oggi, che mare»). A ridere anche
di ciò che si ama e si rispetta glielo hanno insegnato gli anni del liceo, le
grandi amicizie, le avventure, gli scherzi che si accompagnavano allo studio:
«C’era una solidarietà gioiosa, il senso di inventare la vita, di iniziare a
raccontare storie. Se io non avessi studiato, se fossi stato offensivo, bullo,
i miei genitori sarebbero stati durissimi, però a questo gioco partecipavano.
Tornavo a casa e mi chiedevano: che cosa avete fatto a scuola? intendendo non
che cosa avevamo studiato ma che cosa ci eravamo inventati». Un rapporto intimo
con la città ha fatalmente qualche piccola controindicazione per uno scrittore
molto conosciuto e molto richiesto. «In estate vado al mare anche tardi. Una sera
si avvicina una signora: posso leggerle una poesia? E attacca con un
componimento ottocentesco. Cominciava a fare fresco. Azzardo: scusi signora
vorrei fare il bagno. Mentre scendo dalla scaletta, mi punta il dito: Mi
farebbe una prefazione? Per fortuna lì l’acqua è subito molto profonda. “No” ho
risposto tuffandomi e riemergendo nel buio, dall’altra parte».
Qui siamo circondati
da libri. C’è anche il primo amore letterario?
«Sì, I misteri della
giungla nera. Credo di avere 60-70 volumi di Salgari. È stato il battesimo. Ha
cominciato a leggermelo mia zia Maria, prima che io andassi a scuola e l’ho
finito poi da solo. È stato come un prolungato racconto orale. Ancora adesso
penso che le storie non le inventi l’uno o l’altro, ma siano nell’aria, come le
foglie. Ho trasmesso la passione ai miei figli, Francesco e Paolo, con cui
facevamo gare di memoria su Salgari. Paolo quando aveva finito un libro, per
qualche tempo non voleva più leggere niente per il timore che qualcosa potesse
piacergli di più, ma presto è andato oltre quella fedeltà».
Lei è un
viaggiatore, però i due poli della sua vita sono stati Trieste e Torino.
«Ho avuto una grande
fortuna: non ho sentito nella giovinezza il senso, che a Trieste doveva essere
molto pesante, della città che declinava, da cui molti andavano via, e infatti
la generazione dei triestini più vecchi di me di qualche anno, come Tullio
Kezich, Giorgio Vidusso, Glauco Arneri, Franco Giraldi, non ha mai perdonato
alla città di doverla abbandonare. Torino era vitale, un mercato
dell’immigrazione, cambiava continuamente, mentre Trieste in quegli anni era
chiusa, l’ho scoperta intellettualmente da Torino. Avevo letto prestissimo
Tolstoj o Dostoevskij, ma ho scoperto Svevo e gli scrittori mitteleuropei a
vent’anni, Saba ancora dopo, perché prima avevo quasi una diffidenza, stupida
ma anche motivata, verso la città. Torino era vivace, pulsante, era stata la
capitale d’Italia, la città dove era nato tutto. Trieste aveva il vantaggio di
una libertà gipsy, il non dover stare al passo con i tempi, ma se esageri resti
davvero indietro. Ricordo che appena arrivato al Collegio universitario mi ero
già trovato un caffè vicino piazza Vittorio dove andavamo a studiare tra una
lezione e l’altra. Alla fine della prima settimana dal mio arrivo — io non
c’ero quel giorno — ci fu un tremendo delitto, un certo Lo Manto caduto nella
mafia edilizia: gli avevano dato un ultimo, terribile appuntamento al caffè,
lui era arrivato con un’arma nascosta in un giornale, lo aspettavano in
quattro, la tirò fuori e li ammazzò tutti e quattro».
All’università è
stato allievo di Giovanni Getto che era stato suo commissario d’esame alla
maturità a Trieste e la spronò ad andare a Torino.
«Non posso
immaginare che cosa sarebbe successo se non lo avessi incontrato. Mi ha
insegnato un mestiere, sono uscito dall’università come un garzone che ha
imparato dal sarto a fare la manica, a stringere qua, ad allargare là. È stato
anche un rapporto molto affettuoso. Getto era un uomo con una vita personale
infelice, gli ultimi suoi anni sono stati tristissimi. Era infelice per molte
ragioni ed era un eccellente professore anche per questo: dedicava tanto allo
studio, non aveva altro. Organizzava dei seminari notturni, una volta alla
settimana si apriva il palazzo Campana e così ho conosciuto Giorgio Bàrberi
Squarotti, Lorenzo Mondo, Stefano Jacomuzzi, scrittore finissimo, altro amico
fondamentale. Si facevano domande, si presentava qualche lavoretto. Vedevamo
nascere i loro libri. È stato importante, come lo è stato leggere tutta la mia
tesi, poi diventata Il mito absburgico, a Massimo Salvadori in un giorno, dopo
che, due anni prima, lui aveva letto a me la sua, Il mito del buon governo.
Fondamentali sono stati e sono ancora Guido Davico Bonino, Gianluigi Beccaria e
Gianfranco Torcellan, morto giovanissimo, e altri e altre. Le amicizie
femminili sono state e sono essenziali nella mia vita, e sempre durature».
Un altro maestro è
stato Leonello Vincenti, germanista, con cui si è laureato.
«Un grande studioso.
Quando, dopo essermi laureato, sono andato in Germania ed è arrivata la notizia
che Einaudi avrebbe pubblicato Il mito absburgico, naturalmente è stato un
grande momento. Ne ero assai contento ma anche spaventato ed è stato Davico
Bonino, che da poco lavorava all’Einaudi, a strapparmi quasi di mano il
manoscritto. Lui mi scrisse una lettera in cui diceva: è una grande fortuna per
un giovane e io ne sono molto lieto e sono sicuro di conoscerla abbastanza per
credere che lei non ne trarrà conclusioni affrettate».
Lei che maestro è stato?
«Il rapporto con i
maestri per me è la libertà di riconoscere autonomamente un’autorità senza
esserne intimiditi, la verità sta sempre nella discussione. Non ha nessuna
importanza chi poi nell’enciclopedia ha cento righe e chi due o nessuna. Per
questo, per esempio, a Singer, che ho amato moltissimo e che era un genio, ho
potuto dire che i romanzi non erano all’altezza dei suoi racconti. Questo è
successo al rovescio, anche con gli studenti. Mi sono sempre posto come
qualcuno che ha più esperienza e quindi alcune cose le sa meglio, ma non ho mai
pensato di essere più o meno di loro. Infatti con molti di essi, di Torino e di
Trieste, sono anche adesso in un rapporto intenso».
Il passato lega i
racconti del suo nuovo libro, «Tempo curvo a Krems» (edito da Garzanti).
«Credo, come Biagio
Marin, che ci sia un non passare in certe cose: le persone amate, i valori.
“Tutto sta eterno dinanzi al volto di Dio, amalo in me, per questo istante”
dice Suleika al suo amante in una bellissima poesia di Goethe. Però adesso
credo di avere un rapporto diverso con il tempo. Anni fa, a Trieste, andai a
sentire Ungaretti, già molto vecchio. Parlò del “deserto di chi sopravvive”. Ho
avuto perdite di amiche e amici che hanno reso più povero il mio presente. Io
con Stefano Jacomuzzi rido ancora per quando andammo a presentare il mio libro
al casinò di Sanremo, però lui non c’è, non è qui. Ecco, in questo non sento
un’opera metafisicamente distruttiva del tempo, sento proprio qualcosa che
rende più vuota la vita concreta»».
Che cosa le fa paura?
«Ho il senso, e
forse anche la paura, di perdere molte cose. Anche il mare, perché è privo di
qualcuno che dovrebbe esserci e che lo renderebbe diverso. Ora, soprattutto
grazie a Francesco e Paolo e ad alcuni amici e amiche, di paure ne ho molte
meno. C’è un contrasto tra il desiderio di viaggi, di incontri e il desiderio
di sparire. È curioso perché è contrario al mio carattere, io credo fortemente
nel dialogo e non nel monologo in cui si stroliga, come diceva in triestino
Tito Perlini, altra bella testa. Ma la vita è grande e non è mai troppo tardi.
Non avrei mai creduto, dopo la morte di Marisa, che avrei potuto amare ancora,
ma quando ho reincontrato Jole, che avevo conosciuto nell’adolescenza, è
successo».
Teme la morte?
«In questo momento
no, anche se so benissimo che diventa sempre più probabile. Naturalmente non
posso sapere come sarei, come sarò, in quel momento. È come in quel mirabile
racconto di Kipling, I figli dello zodiaco, dove un uomo perde la donna amata e
poi grida: voglio morire anch’io. È assolutamente sincero, lo vuole, ma quando
sente la freccia che arriva dice: no, ancora un minuto. C’è un alternarsi di
bisogno di essenziale, di ombra, e di piglio sempre più duro, invece, nel fare
le cose che si devono fare. Una continua sollecitazione a scrivere, presentare,
andare in giro. Lo faccio, come tanti, ma è faticoso, è come essere a un
cocktail in cui hai il bicchiere in una mano, il piattino nell’altra e qualcuno
che ti saluta. La vecchiaia è un avanzare per indietreggiare, Svevo lo aveva capito».
Nei personaggi dei
racconti c’è qualcosa di lei, qualcosa di personaggi conosciuti, Giorgio
Voghera per esempio...
«È quasi sempre
così: prendi la barba di qualcuno per metterla sulla faccia di un altro. La
letteratura è trovare o inventare? Invenio ha a che fare con l’invenzione ma
anche con il trovare. Incontri due o tre persone e se sei Tolstoj ne fai una
Natasha. Turgenev diceva che se non avesse conosciuto, in un luogo di
villeggiatura, un certo medico non avrebbe potuto inventare Bazarov, che non è
quel signore anche se ne avrà i gesti, il modo di guardare o di parlare».
Tolstoj è uno degli scrittori più amati.
«I due poli sono
Tolstoj e Kafka: l’uno è la vita nella sua grandezza, l’altro è l’esperienza
del disagio, del negativo non integrato. Nel mezzo però c’è tutto e per fortuna
con la letteratura è lecito essere poligamici. Ci sono libri che ti
arricchiscono l’informazione, altri che ti danno una preparazione
intellettuale. E poi i libri della vita. Saba diceva che quello che conta è l’oro:
c’è chi ne ha un chilo e chi un grammo, ma è l’oro che conta».
La collana dei suoi
libri per il «Corriere» comincia da «Danubio».
«È l’ultimo libro
innocente. Se si vede il materiale che c’è in cantina, il cosiddetto avantesto
— le sottocoppe dei boccali di birra, le fotografie che ho scattato, tutta una
serie di documentazione, scritte sui muri, carte che ho trovato in una soffitta
di un mugnaio a Ulm — si capisce che l’ho fatto con molto scrupolo. Però senza
rendermi conto della pericolosità della scrittura, senza domandarmi se sarebbe
riuscito bene o male, diciamo come il “Perdigiorno” di Eichendorff che va in
giro così senza sapere dove va. Insomma l’ho fatto con felicità».
E i romanzi?
«Sono nati con molta
attenzione, con un grande lavoro, ma non sono innocenti. Invece vagabondare e
poi scrivere Danubio è stato un poco un andare in giro come i cani nel film di
Tati Mon oncle. Nei romanzi ci sono le “verità detestabili” della scrittura,
come dice Ernesto Sabato di cui sono stato amico; il “cuore freddo” che Milosz,
grande poeta, vedeva nei poeti che spesso se scrivono delle sofferenze di un
bambino si commuovono più per i loro versi che per quelle sofferenze. Le mie
verità detestabili si trovano credo ne La Mostra, un testo teatrale al limite
della dissoluzione linguistica, messo splendidamente in scena da Antonio
Calenda con uno straordinario Roberto Herlitzka, che è piaciuto molto al
carissimo e grande Daniele Del Giudice».
La documentazione,
anche nei romanzi, per lei è fondamentale.
«Sì, ho molto rispetto
per la realtà, per la vita che, come diceva Mark Twain, è sempre più fantastica
della finzione. Ad esempio quando ho cominciato a scrivere Non luogo a
procedere avevo un’idea assai vaga, poi ho fatto un lavoro enorme: la
Martinica, i testi creoli, il dizionario. L’idea c’era già, ma il personaggio
che sento di più, Luisa, è nato strada facendo».
Scrivere la fa stare bene?
«Sì, però mi dà
anche ansia. Un libro costruisce sé stesso aprendosi la strada e questa è una
fase faticosa ma bellissima. Anche quando comincio a scrivere, magari in modo
selvaggio: è come una storia passionale. All’opposto la fase più brutta è
quando desideri di avere già scritto. È come quando, fatte le debite
proporzioni, pensi: come sarebbe bello essere piantati, viltà universale ma
sopratutto maschile».
Amare è sinonimo di
essere, ha scritto.
«È quasi identico al
senso del non tempo. Per me è impensabile un amore senza il mare. Il mare, so
benissimo che anche esso non è eterno, però il “non tempo del mare” — come si
intitola l’antologia di Biagio Marin che ho fatto tanti anni fa con Pier Paolo
Pasolini e Guido Davico Bonino — dà l’idea dell’essere. Quando sono al mare non
voglio niente, voglio solo essere lì. Ha il senso dell’infinito presente e
l’amore nei momenti forti è questo: un infinito presente».
https://www.corriere.it/gli-allegati-di-corriere/19_aprile_08/claudio-magris-la-collana-in-edicola-con-il-corriere-d41b5b08-5a12-11e9-9773-c990cfb7393b.shtml
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