di Caterina
La Royal Opera House
ripropone Tosca per la nona volta nell'allestimento del 2006 originariamente
diretto da Jonathan Kent e con l'art direction di Paul Brown. Cast e direttori
si sono avvicendati nel corso degli anni, mentre il revival del 2011 è documentato
da un dvd.
Tutt'ora un titolo come
questo fa registrare il tutto esaurito per le recite previste,
indipendentemente dal cast assemblato e nonostante una grigia e fin troppo
convenzionale produzione, nata già vecchia dodici anni fa. Non si può non convenire
che le minuziose indicazioni contenute nel libretto lascino poco spazio a
rielaborazioni o spostamenti temporali nella drammaturgia. Eppure l'impressione
di una solida routine perpetuata nel corso degli anni, uguale in tutto e per
tutto nonostante i contributi personali apportati da cantanti e direttori,
aleggia lungo l'intero arco temporale dello spettacolo. Se ciò può essere
rassicurante per il cast, quasi mai costretto ad attingere alle proprie
riserve, e ancor più rassicurante per una larga fetta di pubblico poco incline
a scavare sotto la superficie di una costruzione musicale che di per sé
fornisce scariche di adrenalina e pathos in quantità, non lo è di certo per chi
la teatralità vuole vederla oltre che ascoltarla. Troppo spesso Tosca è considerata
come una macchina da soldi, teatro pieno e successo assicurato con allestimenti
convenzionali che tralasciano il punto fermo da dove tutto muove: l'interazione
psicologica tra i tre protagonisti.
Chi è Mario Cavaradossi e
che rapporto è il suo con colei le cui belle forme disciogliea dai veli? Chi è
Scarpia oltre che un bigotto satiro, villain per eccellenza, e cosa prevale in
lui nell'interazione con la coppia dei giovani innamorati? E Tosca, che Puccini
rende quasi inafferrabile nel suo temperamentoso mutare di sentimenti, come
lavora mentalmente nelle diverse situazioni?
Maquette primo atto Tosca.
Scene di Paul Brown (2006)
Nell'allestire Tosca non si
dovrebbe prescindere dalla fitta rete di relazioni tra i tre personaggi
principali; anche nel caso di una ripresa questo dovrebbe essere il punto di
partenza. Alla luce di queste riflessioni il revival londinese curato da Andrew
Sinclair risulta carente: è infatti quasi sovrapponibile all'edizione stellare
del 2011 nella gestualità (se non fosse che, sette anni addietro, il carisma di
soprano e tenore scopertamente in lotta per superarsi rendeva la recitazione
arroventata), ma infinitamente meno analitico nella concertazione di Dan
Ettinger, forse distratto dal pendolarismo tra Parigi (per Traviata) e Londra.
Sulla scena in costante
penombra, avvolti in costumi francamente brutti che rendono Joseph Calleja
simile ad un gelataio degli anni cinquanta per via di un improbabile gilet a
strisce, infagottano un Gerald Finley in
gilet, fascia e pastrano ad arabeschi e strisce, con l'aggravante di guantoni
da manutentore delle ferrovie, e trasformano Adrianne Pieczonka in una figurina
di Capodimonte, i protagonisti lottano perché la sospensione dell'incredulità
operi il miracolo.
Chi sembra non aver bisogno
di un contatto visivo con Ettinger é Gerald Finley, al suo primo Scarpia. Dal
sensibile e introspettivo Hans Sachs, passando per il dolente Amfortas e
l'umanissimo Guillaume Tell, era difficile aspettarsi un così credibile
debutto. Ripensando al revival del 2011 nel quale Bryn Terfel giganteggiava,
l'unica intrigante novità di questa edizione consiste infatti nell'approccio
totalmente diverso al personaggio del perfido capo della polizia. Se Terfel
poteva contare su forza animalesca e debordante esaltata da una fisicità e un
volume imponenti, Finley gioca invece su un morbido e manipolativo canto di
conversazione.
Il timbro vellutato e
avvolgente sembra strisciare attorno a Tosca, in un doppio registro articolato
tra momenti privati nei quali l'uomo di
potere sfoga scelleratezza e cupidigia con acuti saldi e
perfettamente timbrati (su tutti il Te Deum,
nonostante il fracasso orchestrale, mal gestito dal podio), e pubblici
dove invece l'interazione melliflua ha un effetto raggelante.
L'interprete, inoltre,
mette in mostra un'asciuttezza nel riempire lo spazio scenico che non ha
bisogno nè della risata sguaiata, nè della testata che Terfel assestava al povero Cavaradossi durante
l'interrogatorio del secondo atto. Gli basta un semplice schioccare delle dita,
la minima inclinazione del capo, percepibile anche in galleria, perché la
personalità bipolare del personaggio venga fuori compiutamente.
Con il basso baritono
canadese si apre un'alternativa al solito Scarpia tonitruante e monolitico
verso il quale tendono i maggiori interpreti di oggi. Dopo tutto si tratta pur
sempre di un nobile siciliano, anche se situato all'estremità dell'ampio
spettro di cattivi all'opera, la cui animalità deve in un certo senso
sottostare alle convenzioni sociali dell'epoca.
Ecco quindi che qualcosa
riluce anche in una serata di routine funestata da una direzione poco incline a
sostenere i cantanti e molto poco attenta alle sfumature (un esempio su tutto:
il volgare mattinale imposto da Ettinger, il quale sicuramente non avrà mai
prestato attenzione alle campane romane all'alba).
No hay comentarios:
Publicar un comentario