20 AGOSTO 2014 | di Luca Mastrantonio
Puoi chiamare «storytelling» l’arte di raccontare, battezzare un decreto
sul lavoro «job act» e usare l’accento fiorentino come «brand» di un
odierno dolce stil novo; ma bastano pochi mesi nella Capitale e spuntano fuori
i primi sintomi del contagio linguistico con il potere romano («A Fra’ —
chiedeva Gaetano Caltagirone a Francesco Evangelisti, braccio destro di Giulio
Andreotti — che te serve?»). Matteo Renzi ieri su Twitter ha
liquidato le voci di accordi segreti al governo con un #madeche. Una
frase interrogativa retorica: la sottintesa risposta a «ma di cosa stiamo
parlando» è «di niente». Più di un «no comment» o di una smentita, il «ma de
che» scredita chi ha formulato l’ipotesi, facendone una parodia nichilista.
Renzi ha usato spesso la frase nelle ultime settimane, per attaccare quelli che
considera i superburocrati dei beni culturali: «sovrintendenti… de che?»; e
poi, dalla Sicilia: «Ci salverà l’Europa? Ma de che!». L’effetto sembra
studiato, ironico: usare una frase negativa romana per dire che non ci sono più
soluzioni «alla romana», da vecchia politica.
Davvero? Ma de che! Veniamo da decenni di comicità al
potere, dalle freddure di Andreotti al cabaret di Grillo passando per le
barzellette di Berlusconi. E poi: era il tormentone già degli anni 90, con il
coatto Lorenzo interpretato da Corrado
Guzzanti a Avanzi,
e oggi Crozza
l’ha rispolverato per un immaginario discorso di Papa Francesco, stanco dei
lussi cardinalizi: povertà? «Ma
de che stiamo a parla’?». La vita politica degli ultimi
vent’anni è nata anti-romana, tra Lega, Berlusconi e grillini, poi si è
romanizzata. Quindi? ai leghisti che criticavamo il romanocentrismo del cinema,
Carlo Verdone rispose con un misto di autoironia e menefreghismo: «Il cinema
italiano romanocentrico? Ma de che».
N.B. Per i puristi, aggiungere l’esclamazione «Ahò».
lmastrantoni@rcs.it
http://criticalmastra.corriere.it/
No hay comentarios:
Publicar un comentario