Caterina
Non é una Carmen per vecchi
quella che Barrie Kosky mette in scena oggi e fino al prossimo 16 Marzo alla
Royal Opera House di Londra. Non lo è per interpreti attempati e/o
d'esperienza, e non lo é per un pubblico compassato che assiste magari alla
trentesima produzione dell'opera più rappresentata al mondo (secondo recenti
statistiche).
C'é un che di visionario e
stravolgente nel modo in cui questa donna assertiva e selvaggia attraversa
l'ultima parte della sua giovane vita, passando con sicurezza attraverso
pallide figure maschili (Don José, Moralès, Zuniga, Escamillo) o femminili (Micaela,
Frasquita, Mercédès). Non ci sono ambienti assolati o clichés ispanici fatti di
ventagli, nacchere, mantillas o sigarette accese in scena: solo uno scalone
imponente ad occupare i tre quarti del palco, che avanza o indietreggia
lentamente e sul quale si muovono i protagonisti, le masse corali, i danzatori
e le comparse. La componente visiva é stilizzata, predomina il bianco e il nero
nei costumi di Katrin Lea Tag con pochi tocchi di colore (vedasi il costume
rosa da Torero che Carmen indossa quando appare brevemente durante
l'ouverture), mentre il disegno luci di Joachim Klein sottolinea l'approccio
quasi da rivista imposto dal regista con occhi di bue e/o grandi chiarori
monocromatici .
In realtà questa é una
storia che si sviluppa con leggerezza per due terzi per poi virare al
drammatico epilogo nell'ultimo atto, il tutto visto nella prospettiva della
protagonista. Quindi niente filologia e scelta fra edizione Guiraud e Oeser, ma
una versione inedita in tre atti invece dei soliti quattro, che i tedeschi
hanno orgogliosamente ribattezzato "Frankfurt Fassung" quando questa
produzione ha debuttato all'Opera di Francoforte nel 2016.
Kosky in un certo senso
cristallizza la vicenda in una serie di tableaux vivants legati fra loro da una
voce fuori campo, come se Carmen raccontasse la sua storia spersonalizzandosi,
utilizzando una rielaborazione dei dialoghi parlati di Meilhac, Halévy e dello
stesso Mérimée autore della novella da cui discende il libretto dell'opera. Fin
qui nessuna originalità specifica, dal momento che sui dialoghi parlati e
financo sui recitativi si è intervenuti costantemente nel passato. Ciò che
invece risulta nuovo, e in questo necessita di un pubblico aperto a soluzioni
che esulano dalla tradizione, è l'introduzione di materiale musicale espunto da
Bizet durante le prove. Tra queste pagine troviamo un'Habanera dotata di una seconda strofa poi sparita
nella stampa di Choudens, e il tema di Carmen che ricompare nel finale tragico.
Musicalmente esce rafforzata ancor più l'assoluta predominanza della
protagonista, la cui presenza aleggia sempre in sala anche quando non la
vediamo.
L'abito nero con strascico
imponente, a coprire buona parte della scalinata, nella scena finale ribadisce
la centralità del personaggio che qui non è né l'usuale fatalona mangiauomini,
né la temibile virago manipolatrice. L'ambiguità e la complessità di tale
eterno femminino si rivelano con chiarezza rendendola molto contemporanea e
priva di sovrastrutture ingombranti.
Tutto si muove attorno a lei, per meglio dire è lei il motore di tutto.
Altro punto di forza nel
progetto di Kosky sono i numeri di ballo, strepitosi, coreografati da Otto
Pichler, mai banali, mai sovrabbondanti,
ideali perchè accompagnano i ritmi di danza
della partitura. Il tutto suggella la chiara natura francese della
musica, relegando le letture spagnoleggianti ad una penisola iberica da
cartolina estranea alla matrice bizetiana. Coristi, figuranti, voci bianche si
muovono in un vortice di gambe e piedi che salgono e scendono dalla scalinata
secondo figurazioni perfette e pertinenti. Dal più corpulento al più anziano,
tutti fendono lo spazio con leggerezza e facilità assai rare in masse
artistiche di solito abbandonate ad iniziative personali.
Dispiace solo che Jakub
Hrusa, alla testa dell'orchestra, si sia lasciato coinvolgere dal progetto
senza lasciare un'impronta personale sulla concertazione. Nel coro delle
sigaraie non sentiamo il fumo che si libra nell'aria in larghe volute, e
neanche certo lento indugiare nei momenti più lirici sembra giovare al
dinamismo richiesto da un tale concept. Questa è chiaramente la Carmen di
Kosky, predomina l'aspetto registico, tanto che il giovane direttore sembra più
incline ad assecondare la visione del vulcanico regista australiano che non ad
imporre la sua interpretazione musicale.
Anna Goryachova è una
Carmen di grande impatto visivo, indipendente come dovrebbe essere, volitiva,
mai disposta ad usare le sue armi seduttive per conquistare Francesco Meli/Don José. Lo vede, lo vuole ma
alle sue condizioni, e non sente la necessità di mostrarsi per quella che non
è. Il pallido José raccoglie i petali
rossi che Carmen ha elegantemente gettato verso lui e li terrà in tasca per poi
mostrarli durante La fleur. Il libretto è rispettato, l'angelica
Micaela/Kristina Mkhitaryan (per fortuna senza trecce bionde e cestino di
vimini d'ordinanza) tenterà di redimere il malcapitato brigadier senza
riuscirci, mentre Escamillo/Kostas Smoriginas farà il suo solito numero da
smargiasso nei couplets forse più famosi di tutta la storia del melodramma.
L'impressione finale è
quella di un progetto molto ben sviluppato, estremamente curato e coerente, che
manca però di personalità forti in grado, sia vocalmente che musicalmente, di
esaltare uno spettacolo nato non solo per impressionare grazie alla sua pulizia
stilistica e al passo teatrale giusto, ma sopratutto per durare nel tempo.
https://amnerisvagante.wordpress.com/2018/02/06/non-e-una-carmen-per-vecchi/
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