di Carla Moreni
Sembra intangibile, quell’isola disegnata dal palcoscenico nella grande piazza di Kiev, tra le cupole dorate delle Basiliche di Santa Sofia e di San Michele: nulla di quanto avvenga dall’alto la scalfisce. Né il diluvio di pioggia, con vento e temperature precipitate a dieci gradi, né i cecchini con i mitra puntati, che sbucano dalle finestre della torre. L’importante qui è solo la musica: Verdi, Copland, Riccardo Muti, John Malkovich, i Cherubini e il meraviglioso e sempre spericolato progetto “Le Vie dell’Amicizia” di Ravenna Festival. Con l’utopia ogni volta realizzata di intrecciare musicisti lontani, dove suonino allo stesso leggio e cantino fianco a fianco orchestrali e coristi fino al giorno prima sconosciuti tra loro. Con un dialogo perfetto, simbiotico. Che lancia messaggi di pace.
Kiev non sembra la capitale di uno Stato in guerra. Te ne accorgi solo al momento del concerto, quando per ordinare le diecimila persone in piazza (disciplinatissime peraltro, e soprattutto tenacemente pazienti) vengono schierati cordoni di soldati, a distribuire la folla in tre gironi: c’è chi sta seduto, al centro, e ci sono due larghi cerchi in piedi, ben distanziati. I cento morti di piazza Maidan, del febbraio 2014, sono un ricordo presente. La paura degli assembramenti tangibile. Oltre ai controlli ormai abituali di borse e cappotti (sì, si muore di freddo) si chiede anche di camminare in fila indiana, andatura impossibile agli italiani.
Provano compassione, traduce l’interprete. Li prendiamo alla lettera. Perché quando cantano - merito loro, merito del loro solerte preparatore, il quarantunenne Bogdan Plish, merito di Riccardo Muti, carismatico nel sentire e intrecciare corde diverse - la risonanza delle linee musicali rinasce nuova, autentica, come se la sentissimo qui per la prima volta. I ragazzi hanno studiato, si sono misurati con quest’opera emblematica del nostro Risorgimento. Ma non solo tecnicamente. Perché mai come ora le parole del vecchio melodramma suonano presenti. Vere. Sono cinque, i Cori uniti di diverse istituzioni musicali dell’Ucraina: oltre ai ragazzi di Mariupol, ci sono i coristi dell’Opera, il Coro da camera “Credo”, l’Ensemble Lyatoshynsky e quelli dell’Accademia Čiaikovskij, di Kiev, che alla fine donerà a Muti tocco e mantello porpora di una laurea ad honorem. Titolo che si unisce alle medaglie del presidente Porošenko, consegnate al direttore, a John Malkovich, eccezionale voce recitante del “Lincoln Portait” di Copland, e a Cristina Muti, da sempre anima del Festival ravennate e del sogno delle Vie. Che già guardano a Atene, a Bruxelles o a Minsk.
L’esecuzione finale che ne esce, alla fine, è bella proprio perché ha vinto una battaglia. Simbolica. Esemplare. Certo meno difficile della pace, tuttavia… E suonano così bene i Cherubini, non solo Verdi e Copland, che proprio nella notte di Kiev sorge spontanea una proposta: perché non mandare in onda il loro “Fratelli d’Italia”, ogni mezzanotte, su RadioUno? I Berliner non si offenderebbero, certo. Mentre ne guadagnerebbero musicalità del fraseggio e la coerenza della storia.
Sembra intangibile, quell’isola disegnata dal palcoscenico nella grande piazza di Kiev, tra le cupole dorate delle Basiliche di Santa Sofia e di San Michele: nulla di quanto avvenga dall’alto la scalfisce. Né il diluvio di pioggia, con vento e temperature precipitate a dieci gradi, né i cecchini con i mitra puntati, che sbucano dalle finestre della torre. L’importante qui è solo la musica: Verdi, Copland, Riccardo Muti, John Malkovich, i Cherubini e il meraviglioso e sempre spericolato progetto “Le Vie dell’Amicizia” di Ravenna Festival. Con l’utopia ogni volta realizzata di intrecciare musicisti lontani, dove suonino allo stesso leggio e cantino fianco a fianco orchestrali e coristi fino al giorno prima sconosciuti tra loro. Con un dialogo perfetto, simbiotico. Che lancia messaggi di pace.
Kiev non sembra la capitale di uno Stato in guerra. Te ne accorgi solo al momento del concerto, quando per ordinare le diecimila persone in piazza (disciplinatissime peraltro, e soprattutto tenacemente pazienti) vengono schierati cordoni di soldati, a distribuire la folla in tre gironi: c’è chi sta seduto, al centro, e ci sono due larghi cerchi in piedi, ben distanziati. I cento morti di piazza Maidan, del febbraio 2014, sono un ricordo presente. La paura degli assembramenti tangibile. Oltre ai controlli ormai abituali di borse e cappotti (sì, si muore di freddo) si chiede anche di camminare in fila indiana, andatura impossibile agli italiani.
Ma ti accorgi davvero della
guerra, e tocchi con mano il senso profondo di questa ventiduesima edizione
delle “Vie dell’Amicizia”, da Sarajevo 1997 a Kiev 2018, quando alla fine della
prova generale, aperta agli studenti (in sala alzano la mano sei giovani che
studiano direzione d’orchestra) nella rasserenante bomboniera del Teatro
Ševčenko, parli con due coristi del Collegio delle Arti di Mariupol: lei,
Juliana, sedici anni, lui, Evgeny, trenta. Sono qui con altri compagni e la
loro maestra. Si sono fatti gli ottocento chilometri che separano la capitale
dell’Ucraina dalle zone a est, nel Donetsk. Lì tutti i giorni si spara, si
combatte. «No, della nostra scuola non è morto nessuno, ma abbiamo amici al
fronte», spiega Evgeny con un ritmo di parole a mitraglia. Parla ucraino,
naturalmente. Mentre Juliana, che è poco più di una bambina, si pizzica
nervosamente il braccio. «Capiamo cosa vuol dire cantare il Va’ pensiero di
Verdi: ce lo hanno spiegato. Ci sentiamo vicini alla storia del popolo
italiano».
Provano compassione, traduce l’interprete. Li prendiamo alla lettera. Perché quando cantano - merito loro, merito del loro solerte preparatore, il quarantunenne Bogdan Plish, merito di Riccardo Muti, carismatico nel sentire e intrecciare corde diverse - la risonanza delle linee musicali rinasce nuova, autentica, come se la sentissimo qui per la prima volta. I ragazzi hanno studiato, si sono misurati con quest’opera emblematica del nostro Risorgimento. Ma non solo tecnicamente. Perché mai come ora le parole del vecchio melodramma suonano presenti. Vere. Sono cinque, i Cori uniti di diverse istituzioni musicali dell’Ucraina: oltre ai ragazzi di Mariupol, ci sono i coristi dell’Opera, il Coro da camera “Credo”, l’Ensemble Lyatoshynsky e quelli dell’Accademia Čiaikovskij, di Kiev, che alla fine donerà a Muti tocco e mantello porpora di una laurea ad honorem. Titolo che si unisce alle medaglie del presidente Porošenko, consegnate al direttore, a John Malkovich, eccezionale voce recitante del “Lincoln Portait” di Copland, e a Cristina Muti, da sempre anima del Festival ravennate e del sogno delle Vie. Che già guardano a Atene, a Bruxelles o a Minsk.
È difficile non parteggiare
per il Paese ospitante, quando si è in clima di guerra. E vibra il discorso di
Porošenko, prima della musica, dove si chiede a Mosca la liberazione del
prigionieri politici ucraini (e Kiev è tappezzata di manifesti per il regista
Sentsov, per il giornalista Sushchenko) ma poi tocca a Verdi, a Copland,
portarlo nella profondità della storia, nelle domande dell’arte, che non ha
bandiere. Cento anni esatti - 1842, 1942 - separano “Nabucco” dal “Lincoln
Portait”: la “patria sì bella e perduta” diventa un nastro di speranza, nel
gesto della mano sinistra di Muti; freedom, democracy, responsability, parole
incisive nella recitazione di Malkovich, senza un velo di retorica. Quello che
insegna la musica è la sua necessità di essere realizzata, per essere viva.
Anche nelle condizioni più estreme. Si deve fare. Non importa il diluvio. Le
sedie bagnate si asciugano. Il famoso attore aiuta col phon ad asciugare i
fogli con gli Inni, di Ucraina e Italia, già messi sui leggii e che si sono
inzuppati.
L’esecuzione finale che ne esce, alla fine, è bella proprio perché ha vinto una battaglia. Simbolica. Esemplare. Certo meno difficile della pace, tuttavia… E suonano così bene i Cherubini, non solo Verdi e Copland, che proprio nella notte di Kiev sorge spontanea una proposta: perché non mandare in onda il loro “Fratelli d’Italia”, ogni mezzanotte, su RadioUno? I Berliner non si offenderebbero, certo. Mentre ne guadagnerebbero musicalità del fraseggio e la coerenza della storia.
Verdi, “Stabat Mater” e “Te
Deum”, Copland, “Lincoln Portrait”, Verdi, pagine da “Nabucco”; John Malkovich,
voce recitante; Orchestra Cherubini e Coro e Orchestra dell’Opera dell’Ucraina;
direttore Riccardo Muti; Kiev, piazza Santa Sofia, Ravenna, Pala De André
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