di Caterina
Così come Sehnen lo è per Tristan und Isolde e Wahn per
Meistersinger (quanto meno nell'Atto III), anche Parsifal è caratterizzato da una parola chiave. Mitleid, approssimativamente
tradotto compassione, è infatti il concetto focale dal quale muove il libretto
del Buehnenweihfestspiel. Il percorso iniziatico che der reine Tor dovrà
affrontare durch Mitleid wissend ci riporta al primigenio motivo ideale del
corpus wagneriano, nel quale colpa e redenzione sono declinate secondo il
concetto puramente schopenhaueriano della rinuncia.
I lunghi racconti di Gurnemanz e di Amfortas altro non sono che
l'esplicazione di una vicenda che procede per blocchi nel cammino di interiorizzata
spiritualità del Titelrolle contrapposta ad una stanca e sterile ritualità
della confraternita del Graal.
In Parsifal per la prima volta Wagner abbandona la chiara e
volitiva assertività che aveva guidato l'intero Ring a favore di una narrazione
fluida che sembra svilupparsi dall'interno, di pari passo con il percorso
evolutivo del puro folle.
Kirill Petrenko si accosta per la prima volta alla partitura
assecondandone la prevalenza orchestrale, ma lo fa esaltando la trasparenza
dell'ordito musicale nel quale ogni nota, ogni intervento di questo o quello
strumento o famiglia non sono altro che necessari. Il preludio ha così una
diafana qualità che irradia una luce soffusa. Il tappeto orchestrale si srotola
con spontanea levità a suggellare
estaticamente sia gli elementi statici
quali il racconto di Gurnemanz e di Kundry, che quelli di movimento quali gli
episodi relativi alle peregrinazioni del protagonista. Ma quale contrasto
invece con la crudezza e la malizia associata alla musica di Klingsor e delle
Fanciulle Fiore! Mai soverchiante, mai eccessivo neanche nel tentativo di seduzione dell'Atto II, Petrenko sostiene
completamente le voci, il suo gesto è di una chiarezza estrema così come la
precisa scansione degli attacchi. Non c'è compiacimento nel governo
dell'orchestra che, inutile dirlo, risponde con una compattezza e attenzione
prive di qualsivoglia manierismo (quale splendore lucente hanno gli ottoni!),
ma una naturale facilità che instilla fiducia nel cast, nei professori, nel
coro. La gestione delle pause rivela la padronanza totale della partitura a
favore di un passo teatrale che sembrerebbe estraneo a tale festa scenica
sacrale, ma che al contrario ne esalta la sapiente costruzione. Da
Knappertsbusch a Boulez, fino a Gatti, Petrenko sembra aver aperto un'ulteriore
nuova strada nell'interpretazione del trascendente nel capolavoro ultimo, sommo
di Wagner.
Logico che ciascuno dei solisti dia prova impeccabile di sé, delle
più intime potenzialità che escono allo scoperto solamente in presenza di un
direttore assolutamente coinvolgente e trascinante. René Pape associa al timbro
squisito e nobile il dolore per la confraternita destinata a scomparire in
mancanza dell'unico, der Eins, in grado di dare un significato agli stanchi e
vuoti rituali del Graal. Vero è che il volume si è assottigliato nel corso
degli anni, nondimeno il suo Gurnemanz è colmo di quella pietas che fa di lui
il perfetto baluardo difensivo di un mondo astratto e in profonda crisi.
Sconvolgente è l'Amfortas di Christian Gerhaher, il suo essere
Tristano dall'atto III dell'omonima opera, si rivela con chiarezza estrema.
Sembra quasi di leggere ciò che Wagner aveva scritto nel Maggio del 1859 a
Mathilde Wesendonk durante la composizione del dramma sui due amanti infelici.
In quella lettera il compositore dichiarava apertamente come Amfortas fosse il
Tristan del terzo atto, ma con una sensibilità estremamente più intensificata.
E ciò avveniva venti anni prima che
iniziasse la composizione del Parsifal, segno che l'idea di un'opera che
analizzasse il trascendente era già presente nella mente del musicista.
Ebbene, l'agonia senza fine, la mortificazione che si concreta in
un dolore sordo e continuo, lo strazio nell'articolazione chiara ed espressiva
del testo da fine liederista qual è, la linea di canto fluida, ininterrotta sia
nei momenti di più disperata agonia che nella rabbia di Ja, Wehe! Wehe! Weh'
ueber mich!, tutto nel canto miniato di Gerhaher descrive un'esistenza senza
riposo sospesa al filo della colpa.
Kundry, la creatura misteriosa e dannata costretta a vivere senza trovare ristoro, enigma di difficile
soluzione per chi è chiamata a ricoprire quel ruolo così complesso, è Nina
Stemme, mai urlante tant'é che il si naturale di lachte è una nota vera e non
un urlo. La sua è una controversa figura che si mostra selvaggia e senza posa
nella corsa alla ricerca del balsamo d'Arabia che dia sollievo ad Amfortas, per
poi diventare manipolativa e di scabra drammaticità nella scena della
seduzione, fino a mordere il palcoscenico nella serena accettazione
dell'espiazione finale. Le sue due sole parole Dienen...Dienen! dell'Atto III
sono il coronamento di una presenza scenica bruciante anche nella lavanda dei
piedi di Parsifal, e nel processo di redenzione finalmente compiuto dopo la
negatività scaturita dall'incontro con Klingsor.
Quest'ultimo è Wolfgang Koch in versione Mangiafuoco, che tuona
dall'alto dell'imponenza vocale, ed è perfetto nella rabbiosa ricerca di
vendetta e di potere.
Finora tutti i personaggi hanno lottato per trovare la redenzione o
la realizzazione dei loro desideri tranne Parsifal. Der reine Tor si distacca
dalle altre dramatis personae perchè alla fine del lungo cammino esperenziale è
l'unico ad aver capito come la redenzione non si possa raggiungere né
attraverso la ripetizione, la conformità ai riti o la morte, né tanto meno
attraverso l'appagamento dei propri desideri più o meno impuri. Jonas Kaufmann
è quel tipo di Parsifal che muta spontaneamente con il procedere della storia.
Ragazzo innocente e sprovveduto, quasi disorientato nel non conoscere né nome
né provenienza (cosa sono le sfuggenti frasi dell'Atto I Das weiss ich nicht),
poi giovane uomo che nel timbro bronzeo e negli acuti pieni, raggiunti con
rotonda robustezza, impara come solo l'amore univoco, la conoscenza del
sensuale risveglio dei sensi e non la fuga da esso siano parte del suo percorso
iniziatico verso la Mitlied, infine dolorosamente consapevole
dell'ineluttabilità del suo ruolo salvifico, il bavarese mostra quanto sia
cambiato il suo approccio al ruolo. Cinque anni sono trascorsi dalla memorabile
interpretazione del puro folle al Met, questo Parsifal è il chiaro frutto di
una maggiore capacità di introiettare le istanze etiche e mitiche presenti nella parte, la
quale è micidiale in quanto sollecita più che le qualità vocali la grandezza dell'artista.
In siffatta resa vocale e musicale le componenti visive e
registiche che tanti dissensi hanno attirato passano comunque in secondo piano.
Vero è che tutto il progetto ruotava attorno all'opera di George Baselitz, il
che ha oscurato la mano del regista Pierre Audi relegandolo in secondo piano.
Però la cifra stilistica dell'artista è stata quella di mostrare un mondo in
disfacimento e profonda decadenza, nel quale alberi inscheletriti e la
semioscurità contribuivano a delineare la disperata ricerca di una via d'uscita
alla miseria umana. La criticatissima scelta di mostrare le nudità cascanti dei
cavalieri del Graal e delle Fanciulle Fiore era in realtà del tutto funzionale
al concept di Baselitz. Un mondo in decomposizione che cerca la purificazione
nel caso della misogina confraternita e il piacere carnale come salvifico
tentativo di salvezza per le seduttrici del giardino di Klingsor, tutto ha una
sua logica. Lo stesso scenario, ma capovolto, riporta alle immagini totem nel
percorso artistico del pittore scenografo. Geniale, forse la cosa migliore di
tutto lo spettacolo, è inoltre l'aver voluto
inclinare al contrario il palcoscenico nel corale finale, quasi ad
evidenziare come finalmente il processo salvifico fosse stato completato per
mano del puro folle. Unico elemento fin troppo semplicistico è invece l'aver
voluto rappresentare tutto l'atto secondo al proscenio, con i cantanti
schierati davanti ad un rideau simile ad un vecchio muro nel quale si apriva
una breccia irregolare. L'azione è risultata appiattita, ma la giustezza e
l'intensità del canto ne hanno colmato la monotonia e la scarsa inventiva.
Insieme alla produzione Gatti - Girard del Met questo Parsifal, pur
se imperfetto, resterà comunque imprescindibile nella ricerca di nuove interpretazioni, nonostante la mancanza
del trascendente di matrice schopenhaueriana e di spiritualità intrisa di
cristianità e buddhismo.
Una serata da ricordare, sulla quale discutere ed accapigliarsi
così come dovrebbe essere alla fine di un Parsifal.
https://amnerisvagante.wordpress.com/2018/07/08/das-mitleid-secondo-elfo-kirill/
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