di Caterina. Nuovo articolo
su Amneris vagante
Chiunque frequenti le sale
da concerto si sarà imbattuto di certo in una trascrizione della Méditation de
Thais nel corso di recital solistici. Ma quanti melomani hanno invece assistito
ad una versione scenica completa della Comédie Lyrique di Jules Massenet?
Se guardiamo alla genesi
dell'opera troviamo il librettista Louis Gallet intento a trasformare l'omonimo
romanzo di Anatole France utilizzando quella poésie mélique che ben si
sposava con lo stile compositivo di Massenet.
La trama originaria resta quasi immutata,
sfrondata e semplificata dalla dialogica filosofica presente nel testo
originario.
Il compositore aveva
ultimato la partitura nel 1892, consegnando dopo pochi mesi la versione
definitiva all'Opéra Garnier, teatro nel quale avrebbe debuttato nel marzo
dell'anno successivo. L'edizione corrente, quantunque molto poco rappresentata
nel Novecento, è invece la seconda che vide la luce nel 1898 e nella quale sono
più spiccate le connotazioni magiche ed arcane.
La vicenda della courtisane
greca dalla bellezza abbagliante, dedita al culto di Venere in un'Alessandria
d'Egitto decadente e corrotta, strappata ad una vita lussuriosa di agi dal monaco cenobita Athanaël e assurta
alla santità nel finale dell'opera, ritorna nel freddo autunno newyorchese al
Met. Le sonorità rarefatte associate all'ascetico ambiente dei padri cenobiti
si contrappongono all'esotismo alessandrino, descritto dal vortice arcano di
percussioni e legni, seguendo uno schema a clessidra. La peccatrice si sottrae
ad una perdizione certa optando per un cammino
di espiazione attraverso la mortificazione della carne, fino all'estasi
finale che la innalzerà alle sfere celesti.
All'opposto il severo ed
inflessibile Athanaël percorre un cammino inverso e altrettanto doloroso fatto
di visioni oniriche e tentatrici che ne scuotono la coscienza, culminante con
l'accettazione e il riconoscimento del suo amore affatto spirituale, nei
confronti di colei che, redenta ed in trance ascetica, si accommiata dalla vita
terrena.
La vicenda è ovviamente
imperniata sulla dicotomia peccato-redenzione, piacere terreno-spiritualità,
particolarmente in voga negli anni in cui poesia e teatro erano impregnati di
parnassianesimo e simbolismo. La cifra stilistica di Massenet aderisce completamente al clima decadente fin
de siècle, quasi una premonizione di ciò
che avverrà con Debussy negli anni successivi, mentre il wagnerismo rielaborato
nei temi (sorta di idées fixes) che caratterizzano situazioni e personaggi
permea l'opera intera. La pagina più celebre, la Méditation sopravvissuta al
lungo periodo di oblio dell'intera partitura, è il vero baricentro di Thais.
Simbolicamente rappresenta la parte mediana e più stretta della clessidra e
ritorna nei momenti di più intenso lavorío spirituale. Dal momento in cui avviene
la conversione della protagonista, assimilabile alla notte dell'Innominato
nella letteratura italiana, il tema riappare nel terzo atto nel quadro
dell'oasi. I due protagonisti sembrano allora aver raggiunto una sorta di
intesa mistica durante il lungo cammino verso il monastero nel quale Thais
completerà il suo percorso di redenzione.
Cellule motiviche si
ripresentano anche nel duetto finale, lei in totale trance ascetica, lui in
preda al tormento, due strade divergenti che conducono la donna alla grazia
divina e il monaco alla disperata dichiarazione d'amore.
Nella storia del Met
l'opera è stata rappresentata di rado, la stagione in corso ripropone una
produzione concepita originariamente nel 2002 per il Lyric Opera di Chicago e
poi trasmigrata a New York sei anni più tardi. In quella occasione Renée
Fleming e Thomas Hampson avevano prestato voce e fisicità ai due protagonisti.
Attraverso la diretta
radiofonica dell'11 novembre scorso l'universo sensuale e allo stesso tempo
intransigente à la Massenet si è
rivelato attraverso la concertazione
ricca di pathos e tensione drammatica di Emmanuel Villaume, il quale da vero
specialista del repertorio francese ha saputo pennellare l'aspro contrasto tra
una civiltà pagana in piena deriva materialista e la religiosità cristiana di
monaci e suore.
Il teatro newyorchese
sembra puntare molto su Ailyn Perez, giovane soprano di origine messicana vista
recentemente alla Scala in alcune recite di Traviata, ed in effetti il timbro
voluttuoso ha un che di carnale che ben si attaglia al ruolo della cortigiana.
La trasformazione in creatura quasi incorporea in seguito al percorso di
espiazione le riesce forse meno agevole, ma il duetto finale con l'Athanaël di
Gerald Finley è probabilmente il vertice assoluto della serata. Senza le
sovrastrutture di scene, costumi e regia, sia pure attraverso la mediazione del
suono riprodotto, ci si può concentrare sulla ricchezza della partitura e sulle
sue innumerevoli sfumature.
Sfumature che, nel canto
sfaccettato e dagli accenti mutevoli, nel continuo oscillare tra intransigenza
e tormento, fanno del monaco cenobita à
la Finley la quintessenza della
fragilità umana. L'emissione morbida ed omogenea su tutta la gamma, in
una tessitura che sollecita particolarmente il registro acuto, la nobiltà del timbro e l'immacolata capacità
di fraseggiare con eleganza e grande pertinenza sono il segno palpabile di
un'interpretazione interamente risolta.
La rinascita di Massenet e
delle sue opere che non siano solo Manon e Werther, passa giusto attraverso la personalità e la
capacità di artisti in grado di dar voce all'ineffabile nascosto nelle pieghe
di un lirismo troppo spesso enfatizzato.
https://amnerisvagante.wordpress.com/2017/11/16/colpo-di-fulmine-thais-di-jules-massenet/
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