Su Netflix il film realizzato con la tecnica della motion capture.
Serkins: «Ho attualizzato il racconto di Kipling. In “Mowgli” tante somiglianze
con le paure di oggi»
di Paola De Carolis
LONDRA Un Mowgli alle prese con temi come l’appartenenza alla
comunità, la diversità, la violenza. Il piccolo uomo della giungla cresce. Nel
film di Andy Serkis — a disposizione su Netflix — le canzoni e il senso di
sicurezza del lungometraggio originale lasciano il posto alle incertezze e alle
insidie dei racconti di Ruyard Kipling così come dei nostri tempi. «Quali sono
le regole della società? Chi le decide? Chi è dentro e chi è fuori? Questi sono
i quesiti al centro della prosa di Rudyard Kipling — racconta Serkis —. Non
potevano non esserci somiglianze con la situazione odierna, la paura di ciò che
è diverso da noi, dello straniero».
È proprio ai racconti raccolti nei due Libri della giungla che si
deve l’aspetto indubbiamente più cupo e serio della nuova pellicola. «Kipling,
così britannico eppure così straniero, cresciuto in India e poi spedito in
collegio in Inghilterra, dove non si sentì mai pienamente a casa, è un
personaggio complicato, un autore amato e allo stesso tempo un controverso
figlio dell’impero, con opinioni indubbiamente razziste. Sarebbe stato assurdo
non mantenere nel film l’idea della colonizzazione dei bianchi nei confronti
della popolazione indigena, oltre che la minaccia che il genere umano
rappresenta per l’habitat degli animali». Come nei libri, non ci sono buoni e
cattivi: «È ciò che Mowgli è costretto a capire. Non può fidarsi. Ogni essere
ha priorità diverse».
Gli animali dotati di espressività umana sono, come era
prevedibile, tra i punti forti del film di Serkis che, negli anni, da pioniere
è diventato uno dei massimi esperti della performance (o anche motion) capture,
una procedura che, in parole povere, permette di costruire un essere attorno
all’interpretazione e ai movimenti di un attore. Se in passato gli hanno permesso
di distinguersi con il Gollum de «Il signore degli anelli» così come i gorilla
de «Il pianeta delle scimmie», le applicazioni presenti e future sono infinite:
«È una tecnica che viene sfruttata per i giochi al computer così come per il
teatro. Recentemente con la Royal Shakespeare Company siamo riusciti a
utilizzarla anche in diretta, sul palcoscenico, in “La Tempesta”»
Per Mowgli era essenziale trovare la formula giusta. «Non volevo
animali che sembrassero troppo realistici. Allo stesso tempo mi servivano
creature che fossero credibili. La difficoltà è stata proprio nel trovare quel
giusto equilibrio», anche per fare onore a un cast d’eccezione: Cate Blanchett,
Benedict Cumberbatch, Christian Bale, Freida Pinto e il giovane Rohan Chand nel
ruolo del protagonista.
L’iter che ha portato alla realizzazione del film non è stato
facile o scontato. Serkis ha cominciato a lavorare al progetto diversi anni fa.
Dapprima la pellicola faceva parte della scuderia Warner, che prevedeva
l’uscita nelle sale. Solo recentemente, anche perché nel frattempo era stato
realizzato e distribuito il «Libro della Giungla» di Jon Favreau, è stato
venduto a Netflix. Come ha preso lo sviluppo Serkis? «Come un’opportunità in
più. Mi piace l’idea di poter raggiungere simultaneamente centinaia di milioni
di persone in 190 Paesi. Il nostro, tra l’altro, non è mai stato un film “da
popcorn”. Per il mercato del cinema Usa, ad esempio, sarebbe stato troppo
dark». Per Serkis ha rappresentato un impegno non indifferente. È regista,
produttore, co-autore oltre che interprete del film. Un’esperienza stressante?
«In un certo senso lo sono tutte. Sicuramente ho imparato tanto». Prossima
fatica: «La fattoria degli animali» di George Orwell. «Da un figlio dell’impero
a un altro».
https://www.corriere.it/spettacoli/19_gennaio_01/mowgli-regista-andy-serkins-racconta-insidie-giungla-e95e3690-0df8-11e9-991e-8333c5dc4514.shtml
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