di Caterina
Con le ultime recite di Don
Carlos l'Opéra National de Paris prosegue nel suo percorso di riproposizione di
opere che hanno debuttato nella capitale francese. Il grand opéra verdiano
presentato nella partitura originaria (al netto del balletto) e con un cast
stellare è un pretesto per riflettere sulla prassi interpretativa del ruolo
eponimo secondo Jonas Kaufmann.
Dati alla mano il
tormentato Infante è fra i personaggi che più frequentemente hanno attraversato
la carriera del tenore tedesco e che ne hanno accompagnato l'ascesa in termini
di fama e consenso popolare e di critica. A tutt'oggi per numero di recite il
prence spagnolo segue da vicino Mario Cavaradossi e Don José in un arco
temporale che, dal 2007, arriva sino ai giorni nostri, più o meno come per le
performances di Tosca e Carmen.
E' ovvio che voce ed
interpretazione siano molto cambiate in un periodo che può essere definito
di consolidamento e affinamento della
prassi esecutiva. Degli anni zurighesi è il debutto nella versione milanese del
1884, quattro atti che fanno della stringatezza la caratteristica essenziale
dell'opera, oltre ad affidarsi meno ai talenti del tenore di turno. La stessa
produzione è ancora in repertorio nella cittadina svizzera, e nel 2007 fu test
importante per la vocalità robusta e sfogata in alto di Kaufmann.
Due anni più tardi
l'incontro con l'edizione di Modena del 1886 che ripristina l'atto di
Fontainebleau, determinante dal punto di vista drammaturgico, la quale esalta
la tinta cupa che attraversa tutta la narrazione. Accanto ad una Marina
Poplavskaya diafana, ad un sensibile Simon Keenlyside e ad un Filippo II
di riferimento grazie a Ferruccio Furlanetto, comincia a far capolino il fraseggio
interiorizzato e miniato del cantante bavarese.
Nel frattempo si susseguono
le recite di Carmen e Tosca, tra l'inaugurazione scaligera del 2009 e le
riprese al Met, alla Bayerische Staatsoper, a Vienna, Berlino e ancora alla
Royal Opera House. La maturazione dell'interprete, la completa padronanza della
tecnica vocale, così particolare e francamente poco ortodossa, lo riportano al
principio del 2012 nei panni dell'infelice infante.
Il Nationaltheater lo ha
ormai accolto a braccia aperte quasi come figliol prodigo, la bacchetta è
quella routinière di Asher Fisch, nel cast disomogeneo spiccano l'Elisabetta di
Anja Harteros, sempre più nemesi interpretativa di Kaufmann, e lo spietato
Filippo di René Pape. La versione prescelta è ancora quella in cinque atti, pur
tuttavia vi è il taglio doloroso del coro introduttivo dei boscaioli. La
produzione è quella di Juergen Rose, fosca, minimalista e allo stesso tempo
altamente teatrale nelle scene cruciali da grand opéra. La vocalità sfrontata di
Carlo si piega alle nevrosi del personaggio. Il peso drammatico è ben
distribuito nei momenti di canto spiegato, ma compare una sorta di tinta
cinerea che accompagna l'interprete nell'interazione con la regina.
Il 2013 consolida lo scavo
del personaggio con le recite di Londra e di Salisburgo nell'ambito del
Festival estivo. Anja Harteros si conferma partner ideale così come Antonio
Pappano è perfetto accompagnatore e
motivatore. La simbiosi artistica fra la coppia tenore-soprano e il direttore
sposta in secondo piano il taglia e cuci fra le edizioni parigina e milanese
operato dal maestro anglo-italiano. La regia rinunciataria di Peter Stein
permette allo spettatore di apprezzare l'ampio catalogo kaufmanniano fatto di
mezze voci crepuscolari su fiati lunghissimi, un si naturale di sfrontata
naturalezza nell'Autodafé e un duetto
Carlo-Elisabetta dell'atto secondo che sfiora il sublime per intensità e
pertinenza di accenti.
Quattro anni sono trascorsi
da allora, un altro tassello prezioso entra a far parte dell'ampio repertorio
di quello che oggi viene dai più definito Star-tenor. Ur-Don Carlos è
un'espressione che definisce la versione primigenia concepita da Verdi per
l'Opéra di Parigi, prima che interi passaggi fossero espunti dal compositore
per permettere agli spettatori di prendere l'ultimo treno e rientrare a casa.
Il ripristino di tali brani e la particolare versificazione dell'originale
francese conferiscono un colore ed un
equilibrio interno profondamente diversi rispetto alle edizioni in italiano
(siano esse in cinque o quattro atti).
Il personaggio dell'Infante
assume una nevroticità ai limiti della psicosi, ed è proprio su questo versante
che si concreta l'aderenza al ruolo di Kaufmann. Le improvvise accensioni, la maestria nel declamare le frasi brevi,
quasi smozzicate, che innervano l'irregolarità ritmica del prolungato duetto
del secondo atto (sempre quello, vero snodo interpretativo perché
rivela tutta l'instabilità del protagonista) compensano un appena
percettibile indurimento della linea vocale. La prestazione che offre si basa
su un continuo oscillare fra intimi ripiegamenti di nera tristezza e sfoghi
inaspettati, con una tenerezza ormai sfiduciata che emerge nelle piccole
legature e nei pianissimo sostenuti, eppure funerei, del duetto finale.
La parabola interpretativa
ha raggiunto il suo punto più alto? Quanti altri Don Carlo/s lo attendono? Avrà
ancora voglia di aggiungere altre stratificazioni alla complessità di un
personaggio che il suo carisma artistico
ha ormai risolto? La sua statura di cantante-attore è ormai acclarata,
resta solo da capire se i suoi progetti futuri porteranno gli stimoli più
adatti a solleticarne il temperamento.
https://amnerisvagante.wordpress.com/2017/11/07/don-carlo-s-secondo-jonas-kaufmann-processo-evolutivo-del-personaggio/
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