jueves, 20 de diciembre de 2018

OTELLO E IL DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS


di Caterina.  Amneris vagante

L’Otello in chiavefemminista di Amélie Niermeyer è veramente filtrato attraverso gli occhi di Desdemona? Non si tratta piuttosto di una vana lusinga l’aver inscenato una sorta di tragedia contemporanea dell’incomunicabilità tra l’universo maschile e quello femminile? Tale chiave di lettura non cela piuttosto un’analisi mirata della condizione attuale del “reduce” affetto da disturbo post traumatico da stress?

Troppi interrogativi? Una produzione così tanto attesa, per la quale la Bayerische Staatsoper ha potutosoddisfare soltanto un decimo della domanda di biglietti, non poteva che favorire un flusso ininterrotto di elucubrazioni ed interpretazioni. Qui la regia di Niermeyer prescinde da Shakespeare e, per diretta discendenza, da Boito. Otello non è né regale, né nobile nell’animo, né tanto meno leone così come definito sarcasticamente da Jago alla fine dell’atto terzo. La dimensione pubblica dell’eroe si chiude fra la boiserie che decora l’appartamento nel quale tutta la vicenda si snoda, in un intreccio di mura che scorrono e microambienti che raddoppiano oppure dividono lo spazio scenico. Nulla filtra dall’esterno attraverso i pochi spettrali finestroni della scenografia immaginata da Christian Schmidt, l’effetto tra le alte pareti è di una miniaturizzazione di chi dovrebbe regnarci, Otello. Quello è dunque il luogo dove si compie la tragedia di un uomo già provato e vulnerabile, vittima e carnefice al tempo stesso di quel teatro della violenza al quale è impossibile sottrarsi, che coinvolge quale vittima sacrificale Desdemona. Dimentichiamoci dunque della fanciulla pura e volitiva di alto lignaggio che scegliendo lo schiavo riabilitato si era consapevolmente opposta alla famiglia di origine. Per Amélie Niermeyer la sposa di Otello costituisce la metà di una coppia consolidata ma senza speranza, donna assertiva, seducente e però in fuga dai demoni che agitano la psiche malferma del marito. Nella tempesta iniziale il coro nell’oscurità fa da contorno alla sua angoscia da #metoo. L’ansia per il ritorno del reduce la divora. La sua è paura per ciò che avverrà, non già timore che la morte le strappi il compagno da lei voluto con caparbietà.
Quando mai si era visto un rovesciamento simile dei ruoli, il terrore vero per un ménage familiare intriso di violenza più o meno palesata? Per lo spettatore l’effetto è straniante, fonte di irritazione a partire dall’ Esultate lanciato nella camera degli sposi e non alla folla accorsa per festeggiare lo scampato pericolo del condottiero. Da qui in avanti questo Otello si svilupperà come un dramma da camera, frutto di contrasti latenti entro una coppia già segnata dall’infelicità. A quel punto l’irritazione si scioglie in sospensione dell’incredulità. Dopo tutto è alquanto difficile immaginare come un vincente, sia pure diverso, possa farsi raggirare da un uomo apparentemente oscuro e privo persino di grandi qualità militari quali Jago. Come metabolizzare l’idea che una macchinazione, sia pur subdola, possa portare alla rovina l’eroe in così breve tempo? Molto più facile accettarlo se la vittima dell’inganno ha già una forte dose di fragilità nel suo intimo.
 Il concetto è chiaro per chiassiste allo spettacolo già nel duetto d’amore che chiude l’atto primo. Otello e Desdemona si illudono di ritrovare l’estasi di un amore ormai alle spalle, quasi non si toccano, il talamo nuziale che è il totem attorno al quale si annodano i momenti pregnanti dell’opera, altro non è se non un letto d’ospedale, ricordo dei traumi di guerra.
Una riscrittura così fuorviante della vicenda la si può accettare solamente se asservita ad una   prestazione non meno che maiuscola di tutti gli artisti coinvolti nel progetto,  sia sul palcoscenico che in buca. Riflettendoci, rimuginando, perché l’impressione epidermica in certi casi va corretta e approfondita, è quello che è avvenuto. L’irritazione che si trasforma in accettazione dell’antieroe meschino al quale i costumi mortificanti di Annelies Vanlaere negano persino le onorificenze conseguite in battaglia, la si può concepire solamente se vocalmente  e scenicamente la distruzione del mito del tenore è affidata ad un camaleonte della lirica come Jonas Kaufmann.
La fatica di entrare in una lettura del  personaggio così controversa fa capolino nel  primo e nel secondo atto. Sin da subito è però chiaro l’intento di privilegiare un’interpretazione basata su dinamiche oscillanti fra il mezzoforte e il piano, mai stentorea nei passi più squisitamente drammatici quali Esultate, Abbasso le spade o A terra e piangi. Così il lungo duetto del terzo atto diventa il fulcro di uno spettacolo nel  quale la speranza è bandita. Il confronto spietato fra il condottiero ferito e la vituperata sposa si muove fra l’amarezza ammantata didolcezza di Datemi ancor l’eburnea mano, il cupo, minaccioso guai se lo perdi  e il luminoso Dio ti giocondi o sposo, fino al veemente Non son ciò che esprime quella parola orrenda. Da quel momento in poi tutto precipita, il Konzept registico viene risucchiato dall’intensità emotiva che si sprigiona. Jonas Kaufmann & Anja Harteros sono un miracolo di interpretazione sia insieme che disgiunti nonostante le incongruenze della messa in scena, l’insulso costringere Otello a cantare il monologo finale ad un letto vuoto (Desdemona esanime dov’è)…

Il soprano tedesco che, essendo sempre presenza attiva o passiva in scena, sta  apparentemente al centro della vicenda, dispiega centri pieni, luminosi ed omogeneità di emissione in tutti i registri, smussando certe taglienti asprezze che talvolta le si contestano in acuto. Dolorosamente umana nella canzone del salice, tesse un ordito delicatissimo che trascolora in tristezza lancinante ed immette nel confronto finale con Otello. L’orchestra enfatizza l’ultimo disperato tentativo di riconciliazione tra gli sposi, è un attimo di sospensione che si realizza con l’ingresso di lui nella camera da letto. Come se non conoscessimo la tragica fine dell’opera e potessimo ancora sperare nel lieto fine. Ma lieto fine non c’è, Otello fu, solo e perso nella suafollia.
Jago trionfa dopo aver tessuto i fili malvagi di una trama subdola sin dal colloquio iniziale con Roderigo. E qui il ciurmador  ha la malìa di Gerald Finley che ammanta il canto dell’alfiere nichilista di preziose sfumature che ne arricchiscono il timbro chiaro nell’economia di una proiezione ottimale. Il fraseggio riecheggia le decine di Leporello, Almaviva e Don Giovanni, insinuante e frastagliato com’è, oltre che essere poggiato su di un’estensione notevolissima che copre con sicurezza sia il temete signor la gelosia  che i la acuti del brindisi. Questo Jago raggelante nella perfidia di un Sogno a fior di labbro oscenamente insinuante e nell’impeto trascinatore del finale secondo gettano una luce nuova sull’interpretazione del personaggio. Basta occhiatacce trucibalde e toni tonitruanti, qui abbiamo la logica risposta alla domanda che tutti ci poniamo: come può Otello cadere  nel tranello? Finley fa della recitazione unita al canto sfumato, espressivo eppur musicalmente preciso e travolgente (vedasi il temibile Questa è una ragna) un tutt’uno, da vero interprete paradigmatico del teatro musicale contemporaneo. Nonostante l’infelice caratterizzazione homosex voluta dalla regia, il basso-baritono canadese guizza leggero tra un intrigo e l’altro alla maniera di un Puck deviato, manovrando un’umanità involontariamente propensa a farsi manipolare.
Ma se può far questo con agio e facilità disarmante lo deve anche al sostegno che gli viene dalla fossa. Non ci si stancherà mai di elogiare la concertazione di Kirill Petrenko, pulsante eppur così analitica da porre in risalto ogni singola frase, la ricchezza di una partitura che si muove fra lo strumentale denso della tempesta  iniziale e dell’esteso concertato del terzo atto, e  la liricità scoperta di momenti di abbandono quali il duetto della camera nuziale e l’Ave Maria di Desdemona. Cosa sono le battute iniziali dei violoncelli che preludono a Già nella notte densa o  la trama secca, piena di noirceur fornita dall’orchestra a Finley per il Credo! Come emerge la maestosa architettura della partitura da un’orchestra sulla quale galleggiano sicure voci e coro. I pizzicati degli archi nel Fuoco di gioia mostrano tutta la loro pulsione cromatica oltre ad essere un miracolo di precisione. Si potrebbe tentare di analizzare con freddezza ogni singola scena, ma impossibile sarebbe non rimanerne estasiati anche per la totale fusione tra palcoscenico e buca, per la precisione perfetta degli attacchi, soggiogati dal gesto del direttore russo.

Alla fine l’irritazione iniziale per una messa in scena forse sbagliata, di sicuro aiutata dal grande senso teatrale dei tre protagonisti, irrisolta laddove manca lo sviluppo di una buona idea di partenza, si dissolve nella magia di un’esecuzione musicale toccata dalla grazia non divina ma verdiana.
   
https://amnerisvagante.wordpress.com/2018/12/15/otello-e-il-disturbo-post-traumatico-da-stress/

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