di Caterina. Amneris vagante
L’Otello in
chiavefemminista di Amélie Niermeyer è veramente filtrato attraverso gli occhi
di Desdemona? Non si tratta piuttosto di una vana lusinga l’aver inscenato una
sorta di tragedia contemporanea dell’incomunicabilità tra l’universo maschile e
quello femminile? Tale chiave di lettura non cela piuttosto un’analisi mirata
della condizione attuale del “reduce” affetto da disturbo post traumatico da
stress?
Troppi
interrogativi? Una produzione così tanto attesa, per la quale la Bayerische
Staatsoper ha potutosoddisfare soltanto un decimo della domanda di biglietti,
non poteva che favorire un flusso ininterrotto di elucubrazioni ed
interpretazioni. Qui la regia di Niermeyer prescinde da Shakespeare e, per
diretta discendenza, da Boito. Otello non è né regale, né nobile nell’animo, né
tanto meno leone così come definito sarcasticamente da Jago alla fine dell’atto
terzo. La dimensione pubblica dell’eroe si chiude fra la boiserie che decora
l’appartamento nel quale tutta la vicenda si snoda, in un intreccio di mura che
scorrono e microambienti che raddoppiano oppure dividono lo spazio scenico.
Nulla filtra dall’esterno attraverso i pochi spettrali finestroni della
scenografia immaginata da Christian Schmidt, l’effetto tra le alte pareti è di
una miniaturizzazione di chi dovrebbe regnarci, Otello. Quello è dunque il
luogo dove si compie la tragedia di un uomo già provato e vulnerabile, vittima
e carnefice al tempo stesso di quel teatro della violenza al quale è
impossibile sottrarsi, che coinvolge quale vittima sacrificale Desdemona.
Dimentichiamoci dunque della fanciulla pura e volitiva di alto lignaggio che
scegliendo lo schiavo riabilitato si era consapevolmente opposta alla famiglia
di origine. Per Amélie Niermeyer la sposa di Otello costituisce la metà di una
coppia consolidata ma senza speranza, donna assertiva, seducente e però in fuga
dai demoni che agitano la psiche malferma del marito. Nella tempesta iniziale
il coro nell’oscurità fa da contorno alla sua angoscia da #metoo. L’ansia per
il ritorno del reduce la divora. La sua è paura per ciò che avverrà, non già
timore che la morte le strappi il compagno da lei voluto con caparbietà.
Quando mai si era
visto un rovesciamento simile dei ruoli, il terrore vero per un ménage
familiare intriso di violenza più o meno palesata? Per lo spettatore l’effetto
è straniante, fonte di irritazione a partire dall’ Esultate lanciato nella
camera degli sposi e non alla folla accorsa per festeggiare lo scampato
pericolo del condottiero. Da qui in avanti questo Otello si svilupperà come un
dramma da camera, frutto di contrasti latenti entro una coppia già segnata
dall’infelicità. A quel punto l’irritazione si scioglie in sospensione
dell’incredulità. Dopo tutto è alquanto difficile immaginare come un vincente,
sia pure diverso, possa farsi raggirare da un uomo apparentemente oscuro e
privo persino di grandi qualità militari quali Jago. Come metabolizzare l’idea
che una macchinazione, sia pur subdola, possa portare alla rovina l’eroe in
così breve tempo? Molto più facile accettarlo se la vittima dell’inganno ha già
una forte dose di fragilità nel suo intimo.
Il concetto è chiaro per chiassiste allo
spettacolo già nel duetto d’amore che chiude l’atto primo. Otello e Desdemona
si illudono di ritrovare l’estasi di un amore ormai alle spalle, quasi non si
toccano, il talamo nuziale che è il totem attorno al quale si annodano i
momenti pregnanti dell’opera, altro non è se non un letto d’ospedale, ricordo
dei traumi di guerra.
Una riscrittura così
fuorviante della vicenda la si può accettare solamente se asservita ad una prestazione non meno che maiuscola di tutti
gli artisti coinvolti nel progetto, sia
sul palcoscenico che in buca. Riflettendoci, rimuginando, perché l’impressione
epidermica in certi casi va corretta e approfondita, è quello che è avvenuto.
L’irritazione che si trasforma in accettazione dell’antieroe meschino al quale
i costumi mortificanti di Annelies Vanlaere negano persino le onorificenze
conseguite in battaglia, la si può concepire solamente se vocalmente e scenicamente la distruzione del mito del
tenore è affidata ad un camaleonte della lirica come Jonas Kaufmann.
La fatica di entrare
in una lettura del personaggio così
controversa fa capolino nel primo e nel
secondo atto. Sin da subito è però chiaro l’intento di privilegiare
un’interpretazione basata su dinamiche oscillanti fra il mezzoforte e il piano,
mai stentorea nei passi più squisitamente drammatici quali Esultate, Abbasso le
spade o A terra e piangi. Così il lungo duetto del terzo atto diventa il fulcro
di uno spettacolo nel quale la speranza
è bandita. Il confronto spietato fra il condottiero ferito e la vituperata
sposa si muove fra l’amarezza ammantata didolcezza di Datemi ancor l’eburnea
mano, il cupo, minaccioso guai se lo perdi
e il luminoso Dio ti giocondi o sposo, fino al veemente Non son ciò che
esprime quella parola orrenda. Da quel momento in poi tutto precipita, il
Konzept registico viene risucchiato dall’intensità emotiva che si sprigiona.
Jonas Kaufmann & Anja Harteros sono un miracolo di interpretazione sia
insieme che disgiunti nonostante le incongruenze della messa in scena,
l’insulso costringere Otello a cantare il monologo finale ad un letto vuoto
(Desdemona esanime dov’è)…
Il soprano tedesco
che, essendo sempre presenza attiva o passiva in scena, sta apparentemente al centro della vicenda,
dispiega centri pieni, luminosi ed omogeneità di emissione in tutti i registri,
smussando certe taglienti asprezze che talvolta le si contestano in acuto. Dolorosamente
umana nella canzone del salice, tesse un ordito delicatissimo che trascolora in
tristezza lancinante ed immette nel confronto finale con Otello. L’orchestra
enfatizza l’ultimo disperato tentativo di riconciliazione tra gli sposi, è un
attimo di sospensione che si realizza con l’ingresso di lui nella camera da
letto. Come se non conoscessimo la tragica fine dell’opera e potessimo ancora
sperare nel lieto fine. Ma lieto fine non c’è, Otello fu, solo e perso nella
suafollia.
Jago trionfa dopo
aver tessuto i fili malvagi di una trama subdola sin dal colloquio iniziale con
Roderigo. E qui il ciurmador ha la malìa
di Gerald Finley che ammanta il canto dell’alfiere nichilista di preziose
sfumature che ne arricchiscono il timbro chiaro nell’economia di una proiezione
ottimale. Il fraseggio riecheggia le decine di Leporello, Almaviva e Don
Giovanni, insinuante e frastagliato com’è, oltre che essere poggiato su di
un’estensione notevolissima che copre con sicurezza sia il temete signor la
gelosia che i la acuti del brindisi.
Questo Jago raggelante nella perfidia di un Sogno a fior di labbro oscenamente
insinuante e nell’impeto trascinatore del finale secondo gettano una luce nuova
sull’interpretazione del personaggio. Basta occhiatacce trucibalde e toni
tonitruanti, qui abbiamo la logica risposta alla domanda che tutti ci poniamo:
come può Otello cadere nel tranello?
Finley fa della recitazione unita al canto sfumato, espressivo eppur
musicalmente preciso e travolgente (vedasi il temibile Questa è una ragna) un
tutt’uno, da vero interprete paradigmatico del teatro musicale contemporaneo.
Nonostante l’infelice caratterizzazione homosex voluta dalla regia, il
basso-baritono canadese guizza leggero tra un intrigo e l’altro alla maniera di
un Puck deviato, manovrando un’umanità involontariamente propensa a farsi
manipolare.
Ma se può far questo
con agio e facilità disarmante lo deve anche al sostegno che gli viene dalla
fossa. Non ci si stancherà mai di elogiare la concertazione di Kirill Petrenko,
pulsante eppur così analitica da porre in risalto ogni singola frase, la
ricchezza di una partitura che si muove fra lo strumentale denso della
tempesta iniziale e dell’esteso
concertato del terzo atto, e la liricità
scoperta di momenti di abbandono quali il duetto della camera nuziale e l’Ave
Maria di Desdemona. Cosa sono le battute iniziali dei violoncelli che preludono
a Già nella notte densa o la trama
secca, piena di noirceur fornita dall’orchestra a Finley per il Credo! Come
emerge la maestosa architettura della partitura da un’orchestra sulla quale
galleggiano sicure voci e coro. I pizzicati degli archi nel Fuoco di gioia
mostrano tutta la loro pulsione cromatica oltre ad essere un miracolo di
precisione. Si potrebbe tentare di analizzare con freddezza ogni singola scena,
ma impossibile sarebbe non rimanerne estasiati anche per la totale fusione tra
palcoscenico e buca, per la precisione perfetta degli attacchi, soggiogati dal
gesto del direttore russo.
Alla fine
l’irritazione iniziale per una messa in scena forse sbagliata, di sicuro
aiutata dal grande senso teatrale dei tre protagonisti, irrisolta laddove manca
lo sviluppo di una buona idea di partenza, si dissolve nella magia di
un’esecuzione musicale toccata dalla grazia non divina ma verdiana.
https://amnerisvagante.wordpress.com/2018/12/15/otello-e-il-disturbo-post-traumatico-da-stress/
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