L’attore ripropone il suo
storico spettacolo del 1980, «Tutti non ci sono». Dall’11 dicembre al Franco
Parenti di Milano
di Emilia Costantini
Dario D’Ambrosi non è un
attore di teatro normale, ed è lui per primo a dichiararlo: «Normale io? La mia
esperienza artistica nasce dalla frequentazione del Paolo Pini di Milano, l’ex
ospedale psichiatrico». Un’esperienza che inizia nei primi anni ‘80,dando vita
al Teatro Patologico e allo spettacolo «Tutti non ci sono», con cui torna in
scena dall’11 dicembre al Franco Parenti. Due anni fa ha anche creato, con
l’Università di Roma Tor Vergata, il primo corso universitario di «Teatro
integrato dell’emozione».
«Ricordo la prima volta che
portai in scena “Tutti non ci sono” a New York — racconta —. Era in sala Andy
Warhol, non so cosa capisse perché recitavo in italiano, ma si divertiva come
un matto per la reazione del pubblico alle mie provocazioni». A cosa è dovuto
il titolo? «Davanti al manicomio di Aversa, c’era scritto: tutti non ci sono,
tutti non lo sono. Ovvero, tutti non sono rinchiusi in manicomio e tra quelli
che stanno dentro non tutti sono matti». Lo spettacolo nasce dall’attuazione
della legge 180 di Franco Basaglia: gli ospedali psichiatrici chiudono e i
pazienti vengono dimessi. Con il rischio, commenta Dario, di «malati
abbandonati a se stessi, spesso senza famiglie pronte ad accoglierli».
D’Ambrosi interpreta uno di
loro: «Lui vorrebbe tornare tra le mura protette del manicomio. L’unica cosa
che porta con sé è un uccellino in gabbia, il suo solo amico con cui si aggira
tra gli spettatori, provocandoli, divertendoli, e terrorizzandoli: la gente ha
paura dei matti io lo so, li frequento da anni». Dai tempi del Pini? «All’epoca
facevo il calciatore, però avevo degli amici psichiatri che mi parlavano dei
problemi legati alla legge Basaglia. Decisi di fare un’esperienza in ospedale,
un mondo di sofferenza e di creatività. Ho iniziato a fare amicizia con i
pazienti e ho avuto l’idea di creare il Teatro patologico, dove sono
transitati, in tutti questi anni, quasi duemila malati. Portandoli in
palcoscenico non li ho curati, ma integrati. In teatro non si usano
psicofarmaci, si lavora sul corpo del disabile mentale, le sue urla improvvise,
che possono impaurire, sul palcoscenico diventano arte. Purtroppo — conclude —
non si può guarire da questa patologia, si può solo aiutare queste persone ad
alzare la testa, a conquistare un po’ di autonomia. È già tanto».
https://www.corriere.it/spettacoli/18_dicembre_09/dario-d-ambrosi-porto-scena-malati-psichiatrici-recita-terapia-2ab5bf04-fbe4-11e8-b5c8-9e33310709fc.shtml
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